Se pensiamo alla parola ritualità la nostra mente tende immediatamente a collegarla a qualcosa di religioso, sacro e solenne, collocato in un tempo e in uno spazio lontani dalla nostra esperienza quotidiana, se non nei momenti in cui la partecipazione a un rito collettivo diventa inevitabile, come una cerimonia o una festa tradizionale. Questo accade perché siamo abituati a racchiudere l’idea di ritualità entro i confini di contesti formali e separati dalla dimensione ordinaria, come se il rituale appartenesse esclusivamente a una sfera altra, quasi intoccabile, senza nulla a che vedere con il fluire della nostra quotidianità.

Ma se invece provassimo a spostare lo sguardo e a ripensare al concetto di ritualità come a qualcosa di vivo e presente nella vita di tutti i giorni? Se cominciassimo a considerare rituale non solo ciò che è codificato dalle religioni, ma anche quello che noi stessi creiamo attraverso i gesti abituali, gli spazi che costruiamo e soprattutto le relazioni che coltiviamo?
È ciò che fece Confucio più di 2500 anni fa: spostò il campo d’azione del rituale dalla relazione tra l’umano e il sovrannaturale a quella tra gli uomini. Confucio si concentrò infatti sull’atteggiamento individuale che ciascuno è invitato a mantenere se vuole diventare davvero un essere umano, secondo l’accezione che egli stesso ne dà (vedi articolo sul ren). Questo atteggiamento, che è innanzitutto e soprattutto interiore, si traduce esteriormente in un comportamento formalmente controllato che pone l’attenzione sull’importanza e la solennità dell’atto che si svolge.
Nel pensiero di Confucio la ritualità, lǐ 禮, è un concetto cardine che è molto più di una semplice formalità. Per lui i riti non sono solo cerimoniali religiosi, ma un insieme di norme di comportamento, sia esterno che interno, che regolano ogni aspetto della vita umana e il cui scopo è quello di creare armonia sociale attraverso lo sviluppo del senso dell’umanità in ogni individuo. La dimensione rituale non si esaurisce quindi nella bellezza formale dei gesti o nella raffinatezza dei comportamenti, ma si arricchisce di un’intenzione sincera rivolta prima verso se stessi e di conseguenza verso l’altro.
Questa sincerità nell’intenzione è ciò che separa la ritualità di Confucio dall’idea di ritualismo inteso come un insieme di atteggiamenti convenzionali solamente esteriori che diventano aridi, riducendosi a pura apparenza priva di ogni partecipazione interiore. Per Confucio essere umani equivale ad essere in relazione con gli altri, e la natura di tale relazione è percepita come un rituale: comportarsi umanamente equivale a comportarsi ritualmente. È dunque la partecipazione interiore che distingue una ritualità meccanica e sterile da una ritualità sentita e feconda da attivare nelle relazioni in modo continuativo, e non occasionale come spesso pensiamo.
Creare relazioni passa dal desiderio di mettere partecipazione in quello che si fa. Sia che la relazione sia con noi stessi, con l’altro o con un gruppo più ampio, il principio è sempre lo stesso: se si coltiva una predisposizione interiore alla ritualità quotidiana, intesa come un atteggiamento di presenza e cura, questo non potrà che penetrare in ogni campo della nostra vita prima come singolo e poi come comunità. È proprio per questo che, secondo Confucio, ren e spirito rituale sono indissociabili e si estendono dal singolo al collettivo e viceversa, costruendo una comunità armonica e ordinata che tende ad allinearsi con la vera natura dell’essere umano.
Yan Hui domandò cosa fosse il ren:
Il Maestro rispose: “Vincere il proprio io per rivolgersi ai riti, questo è il ren. Chiunque se ne mostrasse capace, foss’anche per un giorno soltanto, vedrebbe il mondo intero rendere omaggio al suo ren. Non è forse da se stessi, e non dagli altri, che ne dipende la realizzazione?”
Yan Hui chiese: “Me ne potresti indicare il modo?”
Il Maestro disse: “non guardare e non ascoltare ciò che è contrario ai riti, non dire e non fare ciò che è contrario ai riti”. (XII, I)
Proviamo ad osservare noi stessi. Quanta attenzione mettiamo nei gesti che costruiscono le nostre relazioni? Quanto agiamo in modo distratto e senza cura?
Se provassimo, anche solo per un giorno, a sostituire la nostra meccanicità di pensieri, parole e azioni con una presenza sincera, capace di dare valore rituale a ciò che facciamo e pensiamo, potrebbero aprirsi scenari inaspettatamente nuovi. Per Confucio questo desiderio nasce dall’urgenza di una nostalgica ricongiunzione con l’armonia universale in cui la ritualità è il naturale atteggiamento a cui tornare.
Vi è un rapporto di interazione tra i riti e il significato che essi rivestono per ogni individuo, ovvero il senso di ciò che è giusto, yi義, di cui parla Confucio. Yi, la cui grafica include io, me 我, rappresenta l’investimento personale di senso che ciascuno apporta al suo modo di stare nel mondo e nella comunità umana. Tutto il contenuto della nozione yi come senso del giusto, che include la giustizia, ma anche la giustezza ossia la percezione di ciò che è appropriato a una circostanza particolare, di ciò che è opportuno fare in una data situazione, concorre ad associarlo al li, ossia l’atto significante per eccellenza. Sono questi due concetti, lo spirito rituale e il senso di ciò che è giusto, a definire i contorni dell’universo etico confuciano.
In questa prospettiva emerge chiaramente come la ritualità porti con sé un profondo senso di responsabilità che va oltre la dimensione individuale per abbracciare anche quella collettiva alimentando la connessione con il prossimo. La cosa sorprendentemente rivoluzionaria è che questo senso di responsabilità non viene vissuto come un vincolo oppressivo o una norma imposta dall’esterno, ma come una possibile via di liberazione in cui l’urgente desiderio di ritornare alla propria vera natura passa inevitabilmente dal rendersi conto dell’importanza di assumersi l’impegno di fare la propria parte, riappropriandosi con entusiasmo del proprio ruolo all’interno del tessuto sociale di cui ognuno di noi può essere parte attiva. Infatti, secondo Confucio, se non si è appreso il comportamento rituale non si può affermare di essere integralmente umani.
Il Maestro disse: “Se non v’è il rituale a regolare, la gentilezza si fa molesta, la prudenza si fa vile, l’audacia si fa ribelle, la rettitudine si fa intolleranza” (VIII, 2).
Quando accogliamo la visione del rito suggerita da Confucio, ne scaturisce un autentico cambio di sguardo capace di trasformare prima la vita personale e poi quella comunitaria. Cura, attenzione, intenzione e presenza sono gli elementi essenziali per tessere relazioni ricche di armonia e significato, ed è proprio quello che Confucio auspica quando traghetta il senso del rituale dal rapporto tra l’uomo e il sacro alla relazione tra gli esseri umani.
Quando è sostenuta da una partecipazione reale e costante, l’apertura verso quella dimensione più autentica e vitale che la ritualità può offrire è davvero interessante. Facciamolo. Ci accorgeremo che il sacro è molto più vicino di quanto immaginiamo.
Bibliografia:
Cheng A., Storia del pensiero cinese. Vol I. Dalle origini allo “studio del Mistero”, Einaudi editore, Torino, 2000.


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