Tzedaqàh è il termine ebraico usato per indicare la giustizia, intesa nella sua accezione particolare di rettitudine, sfumatura che segna una differenza fondamentale per non incorrere in dicotomie riduttive di giusto e sbagliato.
Nello specifico la tzedaqàh, secondo la dottrina ebraica, rimanda all’idea della giustizia divina e sociale, quindi richiama lealtà, integrità e perfezione che portano equilibrio nel mondo; collegata all’idea di una giusta generosità, la tzedaqàh è insieme un atto di giustizia e un dovere morale per gli ebrei. Un esempio in tal senso è rappresentato dalla Decima, ovvero la destinazione ai bisognosi del dieci per cento del proprio guadagno, il cui assunto è di non ritenere quello che abbiamo come nostro ma come un dono della Vita che chiede, dunque, di dare a chi ha di meno o troppo poco. Tale interpretazione, però, rischia di essere riduttiva perché, così intesa, escluderebbe implicitamente i meno abbienti dalla possibilità di dare qualcosa a chi ne ha bisogno.
Usciamo dunque da questo impasse chiarendo subito due punti fondamentali sulla tzedaqàh.
Il termine Emunah viene comunemente tradotto con fede, fiducia. Secondo il Dizionario di Filosofia Treccani la parola fede ha il seguente significato: “Adesione ad affermazioni o dottrine non razionalmente evidenti ma credute in base a fondate o autorevoli testimonianze o per rivelazione”.
Occorre rendersi conto che, per la Tradizione ebraica, tale definizione semplicemente… non ha senso.
Decima lettera dell’alfabeto ebraico. Il suo valore numerico è 10. Rappresenta la mano con il dito indice puntato. È l’espressione della Aleph atemporale sul piano materiale.
Dopo Leck Leckà, il secondo appuntamento con le nostre pillole di ebraismo ci porta a vedere da vicino che cosa sia l’Avodah, termine ebraico la cui radice significa lavoro, fatica, servizio. Tali termini sono sicuramente famigliari al ricercatore curioso che ha già appreso che lavoro e fatica corrispondono ad uno sforzo consapevole e costante di indagine interiore attraverso il quale si punta il faro sui propri limiti e maschere, per liberarsi delle sovrastrutture che sono tanto inutili quanto ostacolanti.
Pillole di ebraismo è il nuovo ciclo di approfondimento della Tradizione ebraica che si propone di offrire a piccole dosi alcuni elementi utili a conoscere i tratti essenziali dell’ebraismo. Per far questo vedremo, di volta in volta, alcuni termini fondamentali che si possono trovare all’interno del dizionario della vita spirituale ebraica.
Nona lettera dell’alfabeto ebraico. Il suo valore numerico è 9. Rappresenta il cambiamento di stato, il fango (Tyt in ebraico) che indica l’involucro protettore che consente la muta del serpente.
Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare sua moglie, il suo schiavo, la sua schiava, il suo bue, il suo asino e nulla di ciò che appartiene al tuo prossimo.
Es 20.14
Un lungo e ricco percorso sulla strada della Dieci Parole ci ha condotti finalmente all’ultima delle Parole che, solenne come le altre, ci incita a non desiderare, non desiderare nulla di ciò che appartiene al proprio prossimo.
Non portare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Es 20.16
Il nostro penultimo incontro con le Dieci Parole giunge con un’affermazione che tocca i fondamenti della relazione con il prossimo, ovvero il non portare falsa testimonianza. La domanda allora è d’obbligo: cosa si intende per falsa testimonianza?
Il nostro appuntamento con le Dieci Parole ci porta oggi ad incontrarne l’ottava, che corrisponde al settimo comandamento e tuona con l’imperativo di non rubare. Immediata è l’associazione ad una morale condivisa da credenti e non solo, tanto che in generale questo è un comandamento accettato da tutti coloro che si identificano come buoni cittadini propensi a migliorare la propria vita e quella degli altri.
Ottava lettera dell’alfabeto ebraico. Il suo valore numerico è 8. Rappresenta un recinto, una barriera per separare ciò che ciò è interno da ciò che è esterno, ciò che ha valore da ciò che non l’ha.
Settima lettera dell’alfabeto ebraico il cui valore numerico è 7. L’ideogramma di origine rappresenta una spada e la lettera rimanda alla parola yzun il cui significato è equilibrio. Essa ci insegna dunque che quest’ultimo può essere raggiunto unicamente attraverso il combattimento interiore.
La settima parola, con l’indicazione perentoria di non commettere adulterio, ci porta nell’immediato a concezioni moralistiche di cui, in qualche modo, siamo intrisi in quanto reduci di una cultura cattolica che invita ad una buona condotta matrimoniale, affiancandola però ad un giudizio di valore. Ci si potrebbe domandare, però, se le cose stanno proprio così, certamente spinti da un desiderio di approfondire tale nodo fondamentale e rifiutando, allo stesso tempo, un’interpretazione tanto banalizzante del testo biblico.
Di primo acchito non è certamente facile pensare a queste parole in un modo diverso da quello a cui siamo abituati a pensare. La quinta Parola del Decalogo ci aveva invitato a liberarci dei pesi che ci impediscono di affrontare con leggerezza il percorso di evoluzione e trasformazione interiore e ci aveva messo in guardia dal rischio di passare l’eredità del nostro complicato mondo interiore ai nostri figli.
Onora tuo padre e tua madre, affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che Hashèm [1] il tuo Dio ti concede.
(Es 20,12)
Di primo acchito non è certamente facile pensare a queste parole in un modo diverso da quello a cui siamo abituati a pensare, inzuppati di discorsi moralistici che fanno leva sul senso del dovere; tuttavia, se mossi dalla curiosità di scoprire qualcosa di nuovo, ci si addentra un po’ nella comprensione della quinta Parola, si viene immediatamente ripagati dello sforzo compiuto.
Sesta lettera dell’alfabeto ebraico ed il suo valore numerico è 6. La parola Vav significa uncino; uno strumento attraverso cui si creano dei collegamenti stabilendo delle unioni. Grammaticalmente infatti la lettera Vav rappresenta la congiunzione.
20.8 – Ricorda il giorno dello Shabbat per santificarlo. Per sei giorni lavorerai e compirai ogni tua opera. E il settimo giorno sarà Shabbat per Hashèm il tuo Dio: non compiere opera alcuna, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame e né lo straniero che si trova entro le tue porte. […]
Molti sapranno, a grandi linee, cos’è lo Shabbat per la Tradizione ebraica; si tratta cioè del giorno della settimana più importante, che corrisponde al settimo giorno della Creazione in cui Dio, avendo compiuto la sua Opera, decretò il riposo per se stesso e per tutti gli uomini.
Quinta lettera dell’alfabeto ebraico. Simboleggia la gioia della Presenza della Shekinah (la parte immanente della Divinità) ed il Soffio Vitale. Anticamente era rappresentata come una finestra e graficamente era tracciata con la forma di un pettine. Questo per insegnarci che la nostra realizzazione dipende dalle aperture che riusciamo a creare (le finestre appunto) e che ciò non può essere conseguito senza mettere ordine e dare una direzione alla nostra vita (concetto simboleggiato dal pettine e dall’azione che svolge).
Non pronunciare il Nome di Hashèm il tuo Dio invano, poiché Hashèm non assolverà colui che pronuncia il Suo Nome invano.
(Es 20, 7)
Anche la Terza Parola, come già le prime due, ci porta una nuova lettura delle Tavole della Legge, che dista dal significato a cui tradizionalmente abbiamo accesso, riassumibile nel non offendere Dio pronunciando il suo nome in modo inappropriato.
Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non farti sculture o immagini alcunedi ciò che è in cielo, in alto e di ciò che è in terra, in basso e di ciò che è in acqua, sotto la terra. Non inchinarti ad esse e non servirle, poichè io sono Hashèm il tuo Dio, Dio geloso che serba il ricordo del peccato dei padri fino ai figli, fino alle terze e alle quarte generazioni, con coloro che Mi odiano; ma che agisce ricordando il bene per migliaia di generazioni, per coloro che mi amano e per coloro che osservano i Miei precetti.
La parola dalet significa porta. Si tratta qui della porta che si varca per entrare nel mondo della Manifestazione, le cui meraviglie paiono come miseria in confronto allo splendore della Realtà. Dal significa infatti povertà, indigenza. È unicamente attraverso il prendere consapevolezza dei nostri limiti e della nostra “miseria” che possiamo intraprendere il percorso che dalla Manifestazione conduce alla Realtà varcando la Dalet in senso opposto.
Parlare dei Dieci Comandamenti richiama immediatamente alla memoria le Tavole della Legge ricevute da Mosè sul Sinay oltre che interminabili e noiosissime ore di catechismo… Chi poi non ha visto almeno una volta nella vita l’intramontabile colossal con Charlton Heston nei panni di Mosè?
L’immagine ad effetto è immediata, unita alla percezione interiore di un insieme di norme morali e di buona condotta imposte dall’alto come un limite alle tante cose interessanti che si possono fare nella vita…
In realtà se appena appena facciamo lo sforzo di cercare di capire un pò di più, potremo scoprire nella Tradizione ebraica significati profondamente diversi, che portano a rivelare qualcosa di estremamente affascinante.
Nell’ebraismo innanzitutto non si parla di comandamenti ma la Tradizione li designa come le Dieci Parole (ebbene sì, il nostro Decalogo ne è proprio la traduzione quasi letterale).
Esistono poi differenze tra la versione ebraica e la versione che ne è stata resa dal cristianesimo (l’ordine è leggermente diverso, nella versione ebraica non esistono gli atti impuri e vi sono poi sfumature importanti che approfondiremo nel corso dei post successivi).
Haim Baharier, studioso di ermeneutica ed esegesi biblica, afferma:
“Parlare di Dieci Comandamenti mi pare ingiusto. Non ci sono imperativi, nessuna imposizione. I verbi sono al futuro. Quei verbi portano promesse che si realizzano”.
Lo scenario che si apre è immediatamente molto differente: un’imposizione è statica, monolitica, non lascia spazio a null’altro che l’esecuzione o la trasgressione. Una promessa è aperta al futuro, alla speranza, alla creatività ed al mutamento.
Il primo comandamento come ci è arrivato dal cristianesimo tuona: Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me. La Prima Parola nella Tradizione ebraica è quella su cui si fondano le Parole (o le promesse) successive: Io sono Hashèm (1) il tuo Dio, che ti ha tratto fuori dalla terra d’Egitto, dalla schiavitù.
Non c’è ingiunzione, non c’è imposizione… c’è un’affermazione: io sono il Dio della libertà, io sono la libertà! E’ una bella differenza!
Volendo ancora andare ancora più in profondità una traduzione più letterale suonerebbe così: Anokhì è Adonài il tuo Elohìm, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi. Anokhì significa Io ma sta anche ad indicare l’Anak, il filo a piombo. Nella Tradizione occidentale potrebbe essere paragonato alla Coscienza.
Nulla di esteriore dunque, nessun dio esterno che impone una legge ma l’affermazione che la libertà è conseguita solo grazie alla realizzazione di una Coscienza interiore, Testimone della Coscienza universale.
La Tradizione ebraica sa molto bene che tale livello di Coscienza può essere conseguito unicamente attraverso l’impegno ed il cambiamento che deriva dalla lotta interiore. Abramo si mette in viaggio ed abbandona la propria terra, Giacobbe diverrà Israele unicamente quando passerà dall’altra parte del Giordano dopo aver combattuto con un misterioso essere divino (metafora del combattimento interiore).
Israele dovrà peregrinare nel deserto per quarant’anni prima di accedere alla Terra Promessa (metafora della Realizzazione) e quante battaglie dovrà affrontare per poterlo fare! Tutta la narrazione biblica è un divenire, simbolo del mutamento che ognuno di noi deve ricercare ed affrontare.
Ebreo deriva infatti dal termine laavar il cui significato è passare. Egli è dunque chi compie il passaggio, chi trasmuta da uno stato ad un altro sempre teso alla realizzazione di quella Coscienza superiore, quell’Io divino contenuto nella Prima Parola.
(1) Letteralmente significa il Nome. La Tradizione ebraica non pronuncia il Nome divino di quattro lettere (Tetragramma) e ne sostituisce la menzione con dei sostitutivi. Il più famoso tra questi è Adonai.
Il termine sodomita richiama alla mente la pratica sessuale con persone delle stesso sesso e secoli di lettura superficiale della Bibbia associano a questa il peccato per cui la biblica città di Sodoma è stata distrutta dal volere divino.
Il vero peccato però è accontentarsi di leggere con superficialità il Testo Sacro e della lettura, spesso dettata da preconcetti di tipo ideologico, che gli interpreti di turno hanno deciso di dare (e, a titolo di cronaca, ricordiamo che fino a non molto tempo fa il magistero cattolico dapprima vietava e poi scoraggiava al popolo la lettura della Bibbia).