Pentiti… e sarà tutto come prima!
Relazionarsi con gli altri in modo impeccabile è difficile e ha a che fare con una sfera personale spesso poco conosciuta, perché non è scontato avere le idee chiare sulle dinamiche interiori che ci muovono verso gli altri. Detto in poche parole: non ci conosciamo abbastanza!
Così può capitare, ad esempio, di trovarsi spiazzati o sorpresi di fronte a degli atteggiamenti che non credevamo ci appartenessero o di fronte ad impulsi emotivi che pensavamo di essere in grado di tenere sotto controllo; sentiamo che alcune delle persone attorno a noi (il capo, la collega, il vicino…) talvolta minacciano la nostra serenità, sono la causa fuori da noi per cui ci sentiamo turbati e siamo convinti del fatto che sarebbe completamente diverso non fossimo costretti a condividere parte del nostro tempo con essi. Intanto accumuliamo tensioni ed emozioni negative che alla prima occasione troveranno la strada libera per il momento della resa dei conti, spesso immaginata nei dettagli, che si risolve in una spietata offensiva verso l’altro.
E, se nel rivedere la cosa, ci si ritrova a dispiacersi di quanto accaduto, detto e fatto o a rendersi conto di aver esagerato? Niente paura, sin da piccoli abbiamo appreso un paio di armi segrete infallibili, che mettono a dura prova ogni cuore ferito: il senso di colpa, il rimorso di coscienza, il pentimento ed eventualmente, per la salvezza della nostra anima, la confessione! Ovviamente fino ad un nuovo giro di giostra!
Il punto è che non basta pentirsi, non basta il senso di colpa che serve a mettersi a posto la coscienza. Nella nostra cultura occidentale, inoltre, la confessione è un arma a doppio taglio che, cancellando e azzerando ogni nostro peccatuccio, ci consente di sentirci di nuovo liberi e puliti. Risultato: nessuna trasformazione interiore ma ripristino assicurato dell’innocenza… o almeno apparentemente!
Qui viene in evidenza uno spunto interessante dall’ebraismo; nell’ebraismo infatti non c’è la figura del prete confessore che, intermediario del Signore, estingue i nostri “debiti”. Nell’ebraismo si parla di Teshuvà, impropriamente tradotto con pentimento ma più correttamente inteso come ravvedimento. Partiamo allora dalle definizioni, a scanso di equivoci.
Il pentimento è un atto passivo, in cui generalmente a parole e solo a parole, si esprime il proprio dispiacere, più o meno sincero, per qualche nostra malefatta verso qualcuno. Nessuno sforzo, ma in compenso, se le cose vanno bene, una gran bella figura che riposiziona la nostra immagine in un punto più accettabile per il nostro orgoglio. Qui la comprensione di quanto è successo e di come ci siamo mossi è praticamente minima e la possibilità di compiere di nuovo lo stesso errore alla prima occasione è praticamente certa.
Il ravvedimento è invece un atteggiamento interiore attivo che presuppone la riparazione volontaria al danno compiuto, ovvero il mettersi in gioco attraverso una compensazione, un gesto riparatore che è una possibilità che abbiamo per ristabilire l’equilibrio. Ma non solo. Teshuvà è mettere le cose a posto con l’altro in modo profondo, laddove si avverte che per ricucire uno strappo non bastano le scuse fatte a livello della superficie. Da cosa nasce la spinta a farlo? Dal desiderio autentico di cambiare perché così come siamo non ci accettiamo più! Sarà di fondamentale importanza, allora, il ruolo dell’osservazione di sé per raggiungere gradualmente una comprensione reale delle dinamiche interiori che creano sofferenza negli altri e in noi stessi.
Teshuvà è ristabilire un intimo legame di fiducia in cui l’obiettivo è un nuovo tipo di relazione, autentica e sincera, dopo aver tirato giù le maschere per mostrarsi nella propria fragilità umana, esattamente come accade ai personaggi della Torah. Secondo il Midrash (1), ad esempio, Adamo è stato il primo uomo a ravvedersi, quindi a fare Teshuvà spinto dal desiderio di non sentirsi più separato da Dio; ciò, però, è stato possibile grazie al fatto che Adamo è stato disposto a guardare dentro se stesso per vedere la sua parte invece di addossare la responsabilità delle sua azioni ad Eva, puntandole il dito contro per aver mangiato con lei il frutto dell’Albero della Conoscenza. È solo guardando dentro se stesso che Adamo ascolta la voce della sua coscienza e dunque può riconciliarsi con Dio.
Ravvedersi è dunque comprendere, osservare, rivalutare, ribaltare il proprio punto di vista e adottare nuovi significati esistenziali che trovano spazio in noi e sono in grado di unire, riavvicinare, ricostruire… e tutto ciò si può fare solo a scapito della nostra falsa personalità, che gradualmente cederà il posto ad una parte di noi più vera grazie all’intenzionale lavoro su se stessi che conduce al cambiamento interiore.
Affrontare con coraggio il cambiamento, la trasformazione alchemica del proprio sé non ha dunque niente a che vedere con la passività dei sensi di colpa, la trappola dei rimorsi di coscienza e delle scuse senza un seguito concreto che conservano un posto sicuro per i prossimi stessi errori.
(1) Insieme di opere esegetiche di interpretazione delle Sacre Scritture facenti capo alla Tradizione ebraica.
Bibliografia:
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, Gli Adelphi, Milano, 2019.
Arthur Green, Queste sono le parole, Giuntina, Firenze, 2002.
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