Oltre la mela: il mito del Giardino e la svolta della comprensione di se stessi

C’è una storia che è stata impressa in ognuno di noi, un simbolo, un insieme di significati impacchettati e preconfezionati. Un’immagine: un giardino pieno di delizie, un albero, una mela, un serpente, una donna tentata e tentatrice che induce l’uomo a peccare… Una punizione, una condanna trasmessa per via ereditaria, una condizione di sofferenza e di felicità perduta. Stiamo naturalmente parlando del Peccato del Primo Uomo, definito Peccato originale. 

Non è nostra intenzione in questa sede analizzare tutti i passaggi e le stratificazioni che hanno portato questo simbolo a sedimentarsi in noi. Intendiamo piuttosto approfondire ciò che la Tradizione ebraica può suggerirci di diverso a proposito, riflettere su cosa può significare in pratica, per noi cercatori del Terzo Millennio 

Mito moderno del peccato originale

Non pretendiamo nemmeno di esaurire in poche righe un argomento su cui potrebbero essere scritti libri, vogliamo soltanto e scoprire se, mettendoci in ascolto, possiamo scorgere un riflesso di quello che una Tradizione millenaria ha da dire e cosa può significare per la nostra vita.

Innanzitutto cominciamo con il dire che per l’Ebraismo non esiste, né è mai esistito alcun Peccato originale; generalmente si parla al massimo di errore di Adamo in termini di disobbedienza a Dio. Il concetto di Peccato originale è stato introdotto, in ambito cattolico, da Agostino di Ippona nel IV secolo; per tale dottrina l’uomo è segnato dalla colpevolezza commessa da Adamo che lo rende preda del demonio e condannato da Dio.

Ma andiamo avanti: il racconto in questione è contenuto nel libro della Genesi, quello che per la Tradizione ebraica è il libro di Bereshit, che significa In principio. Facciamo parlare il testo: 

Il Signore Dio fece spuntare dal terreno ogni sorta d’alberi, attraenti per la vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita nella parte interna del giardino, insieme all’albero della conoscenza del bene e del male. 

(Gn 2, 9)

Il testo prosegue:

Poi il Signore diede questo comando all’uomo: “Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui te ne cibassi, tu certamente morirai”.

(Gn 2, 16-17)

Possiamo già fare ora qualche osservazione: innanzitutto non si parla ancora di frutti, ma soltanto di alberi. La Torah intende infatti che erano gli alberi interi, ovvero nella loro totalità, a costituire il nutrimento per la coppia edenica. Questo è comprensibile se, guardando il testo come a un Mito, ci stacchiamo dall’idea di albero come essere vegetale per pensarlo come un nutrimento simbolico. 

Se si approfondisce meglio il testo nella sua lingua originale, inoltre, si potrà notare, che, più volte, quando la Divinità ingiunge di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, viene specificato che tale atto non dovrà essere fatto separandone le parti. 

Il versetto della Genesi citato sopra suonerebbe allora:

…dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangerai separandolo, staccandolo…

Ovviamente la Torah sta parlando di alberi e frutti simbolici, e simbolicamente il separare una parte dal suo intero assume allora il significato di preferirla al resto. Tradotto in termini pratici significa dire: questo a me piace mentre il resto non mi piace. Si tratta dunque del simbolo che svela il passaggio dall’oggettivo (costituito dal vero) al soggettivo (costituito dal bello/brutto, piacevole/spiacevole).

Mosè Maimonide, uno dei grandi commentatori della Tradizione ebraica, ci dice infatti che, nel giardino dell’Eden, gli esseri umani possedevano una conoscenza oggettiva e veritiera delle cose, mentre dopo il cosiddetto errore di Adamo, pervennero ad una conoscenza soggettiva. 

Il soggettivo è il regno dell’opinione, del secondo me. È il regno dell’opposizione, ovvero del piacere soggettivo della fruizione di ciò che piace e della sofferenza per non poterne fruire. Il soggettivo è relativo: ciò che piace a me non piace ad un altro, ciò che è bene/male per me non lo è per un altro, tuttavia il soggettivo è necessario perché crea la coscienza di essere un individuo con i propri limiti, opposto allo stato edenico di unione. Nel passaggio biblico, che porta Adamo ed Eva a fare esperienza della soggettività, sta dunque la possibilità di evoluzione: non c’è stimolo a conoscere nell’Unità, dove tutto è già perfetto. 

Pensiamoci bene: Adamo ed Eva non avrebbero cominciato il loro viaggio di conoscenza se non avessero mangiato dall’albero separandolo, ed è a partire da qui che hanno la possibilità di evolvere, di tornare all’Unità imparando a riconoscere il separare, quindi la visione parziale, come potenziale fonte di isolamento, di identificazione e, quindi, di sofferenza.

Perché dunque Maimonide associa la conoscenza oggettiva al vero? Cos’è la verità dunque? Possiamo dire che la verità è ciò che accade. Sono i fatti. Nella relazione con gli altri, noi viviamo costantemente immersi nella soggettività. Trascorriamo la vita tra una reazione meccanica e l’altra, reazioni che sono frutto di circuiti automatici appresi ed interpretiamo costantemente ciò che accade, filtrando quello che viviamo attraverso tali schemi soggettivi, con una visione parziale delle cose. Tale approccio alla vita genera sofferenza.

Ogni volta che indugiamo in queste reazioni anche noi separiamo, stacchiamo una parte da quell’albero anziché abbracciarne l’intero. Non siamo in grado di considerare i fatti e, nel soggettivo, ci consideriamo il centro del mondo. Se considerassimo i fatti, invece, ciò che vedremmo ci  apporterebbe una maggiore chiarezza, cominceremmo a lasciare il soggettivo per andare verso l’oggettivo e romperemmo il nostro isolamento, costruendo relazioni realmente gratificanti… perché il Paradiso, l’Eden terreno, si costruisce anche cercando di affrontare le piccole grandi difficoltà di tutti i giorni.

BIBLIOGRAFIA 

Bibbia Ebraica Interlinerare, Genesi, San Paolo edizioni, Cinisello Balsamo, 2006.

Levy P., L’astuzia di Dio, Servitium editrice, Milano 2013.

Maimonide, La Guida dei Perplessi, UTET, Torino, 2005.

2 pensieri riguardo “Oltre la mela: il mito del Giardino e la svolta della comprensione di se stessi

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  1. Grazie per lo spunto di riflessione, mi permetto di riportare quanto letto di recente nei libri apocrifi di Enoch, seconda parabola l’Antico dei Giorni e il Figlio dell’Uomo, in teoria antecedente ad Agostino D’Ippona, si parla del Figlio dell’Uomo, che ha preservato il destino dei giusti e che nel suo nome essi saranno salvati…….. dal peccato legato alla caduta degli Angeli. La mia riflessione in merito a ciò è che a prescindere dall’origine dell’ipotetico peccato è sempre presente nel cuore turbato la ricerca della Saggezza, buon fine settimana

    1. Grazie per il commento Antonietta. L’argomento, come abbiamo premesso, è veramente molto vasto già solo prendendo in considerazione i Testi della Torah e dei commentari che sono stati scritti intorno al tema. Il Libro di Enoch da lei citato appartiene ad una letteratura altrettanto vasta, con un linguaggio ed una mitologia molto complessa la cui analisi sarebbe impossibile in poche righe. Concordiamo con lei e ci auspichiamo che ogni ricercatore possa fare tesoro del turbamento del cuore che sente e mettersi in ricerca di quella Saggezza a cui tutte le Tradizioni intendono condurre.

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