La ricompensa divina

baal_shem_tov_chassidimTutti gli insegnamenti spirituali del mondo convergono sulla medesima finalità. Il messaggio profondo che unisce Oriente ed Occidente può riassumersi nell’antico motto dei Rosacroce:

A me il lavoro,

agli altri il frutto,

a Dio la gloria!

Troppo spesso ci dimentichiamo della matrice culturale in cui siamo nati e cresciuti, e difficilmente ci osserviamo per riflettere sul fatto che spesso e volentieri ci approcciamo ad un percorso spirituale con una mentalità quasi imprenditoriale, dove volenti o nolenti rimaniamo in attesa di un tornaconto.

Già, perché chi di noi può negare di covare nell’intimo di se stesso la sottile aspettativa di “illuminarsi”, di “farsi buon karma”, o di “essere salvato”, o di poter “accedere al Paradiso” dopo la morte, oppure di poter “gustare il nettare di un’esperienza mistica”.

Insomma, difficilmente non poniamo la nostra idea di servizio sullo stesso piano di uno scambio commerciale. Pur continuando a perseguire con tenacia e perseveranza sulla propria strada intrapresa – sarebbe troppo comodo gettare la spugna con la scusante “le mie intenzioni non sono pulite” – nessuno ci vieta, anzi è auspicabile, riflettere su noi stessi.

Ci viene in aiuto una bellissima leggenda chassidim, che vede protagonista proprio il Baal Shem Tov, uno dei più grandi maestri dell’ebraismo e dell’umanità intera.

Una volta il Baal Shem Tov vide un ricco mercante intento a compiere un’opera di grande generosità. Mosso a compassione per la bontà di questa persona, e sapendo che il suo sogno più intimo era quello di poter avere un figlio, il Baal pose su di lui la sua benedizione assicurandogli che entro la fine dell’anno il suo desiderio si sarebbe realizzato.

Appena il Baall Shem Tov rimase solo, una Bat Kol (rivelazione divina) risuonò dal cielo con queste parole:

“Non sapevi forse che quest’uomo era sterile? Ora, a causa della tua promessa, il Signore dovrà cambiare il corso del Suo progetto divino. Per questo motivo ti sarà da questo momento e per sempre negato l’accesso al Regno dei Cieli.”

Invece di cedere alla più nera disperazione per aver perso la sua unione con il divino, il Baal Shem Tov si mise a danzare con gioia.

“Grazie”, disse rivolgendosi a Dio. “Fino a questo momento mi ha sempre accompagnato il pensiero che il servizio che Ti rendevo fosse contaminato dall’aspettativa di ricevere la Tua ricompensa, ma ora finalmente sono completamente libero ed ho la possibilità di servirTi senza nessun interesse, perché perfino il Regno dei Cieli mi è precluso!”

E continuò a danzare per ore sprizzando di gioia!

26 risposte a "La ricompensa divina"

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  1. Storia bellissima e piena di significato…., ma se prestiamo attenzione, alla fine, nel leggerla, ci si rimane un po’ male.

    Ma come, ci viene, sotto sotto, da pensare, Baal Shem Tov fa un’opera buona e come conseguenza gli è precluso per sempre il Regno dei Cieli?

    Però, subito dopo, ci viene ancora , sotto sotto, da pensare, che sicuramente a Bat Kol (cioè Dio, che per definizione è buono e giusto e, soprattutto- almeno si spera – riconoscente verso chi lavora per lui …) prima o poi gli passerà l’arrabbiatura e lo perdonerà, anche in virtù della dimostrazione evidente che il suo operare giusto e compassionevole non avveniva in funzione di un calcolo utilitaristico, in vista di una meschina ricompensa personale ….

    Il passo immediatamente successivo, poi, consisterà nel confrontare noi stessi con quella situazione dicendosi (da soli …) che noi non siamo mossi come quegli “altri” dalla paura dell’inferno o da un semplice e meschino desiderio di salvezza personale, ma per “partecipare al Disegno Divino” o per puro “amore per la Verità” o per “senso di servizio verso l’Umanità sofferente”, ecc. ecc.

    Cercheremo cioè di dimostrare (prima tutto a noi stessi) che il nostro operato deriva da un atteggiamento veramente disinteressato, cercheremo di rivestire il nostro modo d’essere con il manto dell’ “impersonalità”.

    Ma è veramente possibile, per noi esseri “egocentrici” (non egoisti, ma egocentrici cioè “centrati” su sé stessi …) riuscire a risultare completamente, totalmente disinteressati ?

    E’ possibile per il “centro” che siamo porsi in maniera tale da andare oltre la propria natura?

    Un giorno a Meister Eckhart (un mistico tedesco del tredicesimo secolo …) venne chiesto in che cosa consisteva la perfezione.
    Egli, più o meno, (vado a memoria cercando di restituirne il senso …) rispose così:

    “Vivere tutta la vita nel bisogno, afflitti dai dolori, derisi e denigrati dagli altri, maltrattati dagli uomini e dalle circostanze e sopportare tutto con serenità e leggerezza, con disponibilità verso gli altri e allegria, giorno per giorno, fino alla morte …

    …e senza sapere il perché.”

    Eckhard aggiunge alla fine “…e senza sapere il perché” : se no non vale, se no non funziona …

    A questo punto, però, mi è venuto da pensare ad un termine che è ricorso mille volte in questo blog, un termine a cui si tende a dare, invariabilmente, un valore “positivo”.
    Un termine usato spesse volte come atto distintivo rispetto a coloro che, peccato per loro, non rientrano nella categoria .

    Il termine è “cercatore” ed è un termine, se ci pensiamo bene, che fa a botte con quel “… e senza sapere il perché.” di Eckhart.

    Chi cerca, infatti, spera di trovare ….

    Trovare cosa?
    Quale è lo scopo intrinseco della ricerca?

    E, soprattutto, “chi” cerca?

    E se la ragione che sottende alla ricerca sta in un profondo, intimo desiderio di “Salvezza”, “chi” stiamo cercando veramente di salvare?
    ( Attenzione : Krishnamurti, per esempio, nelle sue conferenze diceva che anche il “desiderio di Salvezza” è comunque un desiderio … )

    Allora è giusto osservarci e riflettere su noi stessi, ma partendo da quello che siamo, dalla nostra reale natura, non dalla visione “eroica” o “mistica” di noi stessi, che noi stessi ci siamo costruiti.
    Perché siamo tutti bravi a fingere, con noi stessi più ancora che con gli altri, così come siamo bravi a credere vere le nostre stesse finzioni.

    E, poiché l’uomo rimane sostanzialmente uguale a sé stesso, anche gli “antichi” -a cui accreditiamo tanta saggezza – erano bravi ad illudere sé stessi e, perché no, ad inventarsi storie bellissime e piene di significati ….

    Roberto

    Ps: un riconoscimento agli amici del Per Ankh ( così, come si dice, gli aumentiamo l’ego …) per gli spunti sempre coinvolgenti ed intriganti.

  2. Mi scuso di cuore, ma devo dirti che hai dei concetti esoterici confusionari (mi rivolgo in particolare a Roberto).
    Dal Tuo commento deduco una serie di contraddizioni che lasciano un incolmabile vuoto!
    Ogni frase da te intrapresa meriterebbe scriverci un libro per poter apportare e rettificare le affermazioni altamente inesatte.
    Essendo un lavoro gigantesco non è ne la sede ne il caso di poterli espletare.
    Quando mancano le basi per poter discutere determinati argomenti è meglio tacere!
    Giorgio.

    1. Giorgio, non mettiamo in discussione il fatto che tu abbia validissime argomentazioni (esoteriche e non) per non aver apprezzato l’intervento di Roberto o di altre persone in questo blog (noi inclusi), ma non vediamo onestamente di molta utilità il rimanere ad un livello generalizzante.
      Ogni critica è ben accetta ma nell’ottica di una riflessione argomentata e costruttiva, altrimenti rimarrebbe sterile e fine a se stessa.
      Cerchiamo di andare al di là del limite di molte scuole, dove il modus operandi è spesso quello di cercare di sminuire altre forme di pensiero adducendo a conoscenze ben più profonde ma troppo complicate o lunghe da approfondire.
      Siamo liberi di non condividere le riflessioni altrui, ma siamo tenuti a rispettarle in quanto certamente sintesi di percorsi di vita tutt’altro che superficiali.
      Grazie

  3. La bellissima riflessione di Roberto (così equilibriamo il foraggiamento egoico…) ci impone a lasciare come sempre il campo dell’esplorazione di se stessi più che mai aperto, e ci impone anche di non dare per scontati nemmeno i più basilari termini intorno ai quali ruota questo stesso blog.

    Forse dietro il troppo generico concetto di “cercatore”, in cui chiunque potrebbe identificarsi, si cela una non meglio specificata spinta ad osservare e partecipare alla vita senza darla e darsi mai per scontati, senza potersi mai considerare arrivati da qualche parte.

    Le antiche tradizioni mettono a dura prova la nostra tentazione di poter trovare rifugio in esse accomodandoci su comodi significati precostituiti, ma allo stesso tempo ci pungolano e ci stimolano con i loro frequenti paradossi.

    Colui che “cerca” può essere infatti mosso da una sottile ricerca di una personale salvezza, o forse può essere mosso da una profonda nostalgia verso qualcosa che non riesce a comprendere ed afferrare, ma che non può fare a meno di perseguire attraverso una sorta di profonda indagine interiore. Forse questi due moventi camminano di pari passo, ogni tanto prevale uno, ogni tanto prevale l’altro. Forse sono la stessa cosa. Forse sono entrambi fuorvianti. Forse sono l’unico carburante che abbiamo a disposizione.

    Dietro la fatidica domanda “chi sono?” si cela probabilmente il più Grande Smascheramento di se stessi, che porterà proprio a comprendere “chi si chiede chi sono?”. Forse, sarà proprio da quel momento in poi che ogni nostro gesto potrà realmente divenire disinteressato e allo stesso tempo pieno di vitalità.

    Fino ad allora, non possiamo fare a meno di cercare. A questo punto, sperando di non trovare…

  4. Caro Giorgio,
    non devi scusarti, hai perfettamente ragione quando dici che i miei concetti esoterici sono confusionari e inesatti.
    Infatti i miei non sono “concetti esoterici” , ma semplici, umanissimi, “concetti”, frutto della mia mente.
    Frutto, fra l’altro, della mia soggettiva, parziale, arbitraria costruzione mentale, cioè di quell’insieme di preconcetti, idee, scelte, elaborazioni , conclusioni , costruito nel corso della vita, così come, del resto, credo sia, a prescindere da ciò che pensano, per tutti coloro che si trovino ad esprimere idee e concetti personali.
    Direi che sei perfino gentile nel definire solo “confusionari” e “inesatti” i miei concetti “esoterici”, tendi a dar loro una valenza più grande di quello che hanno, anche perché fanno riferimento ad un campo (almeno apparentemente) molto diverso di quello dell’esoterismo.
    Tendo ad occuparmi, infatti, di quelle che sono le condizioni esistenziali dell’uomo; di quelle questioni che riguardano ciascun uomo a prescindere dalla cultura, religione, appartenenza sociale, preparazione scolastica e, nel caso dell’esoterismo, vocazione intellettuale.
    Mi interesso, piuttosto ,di quegli aspetti che rappresentano l’universalità della condizione umana, aspetti nei quali ciascuno si può facilmente rispecchiare, perché hanno a che fare con la propria personale esperienza di vita.

    Durante un incontro con un monaco buddista, Krishnamurti (scusa se lo chiamo in causa ancora una volta, ma lui aveva una capacità unica nel rendere chiaro e palese ciò che di solito si fa fatica a vedere …), dopo che, alle proprie sollecitazioni, il monaco aveva contrapposto sempre e solo il dettato dell’insegnamento buddista, quando, di fronte alla sua ennesima presa di posizione il suo interlocutore si dichiarava d’accordo con lui su quel particolare aspetto, Krishnamurti si ferma, fa una pausa, lo guarda diritto in faccia e gli domanda:
    – Ma, Lei è d’accordo in quanto “buddista” o in quanto “essere umano”?

    Caro Giorgio, al contrario di te io sarei contento e curioso di confrontarmi su quelle contraddizioni che tu dici di vedere nelle mie parole, così come, se non su tutti, almeno su uno di questi aspetti che ritieni da rettificare.
    Vedi tu se ne vale la pena.

    Per quanto riguarda il “vuoto incolmabile”, magari ci fosse: come ben immagini, non sono ancora riuscito a non riempire ciò che, svuotandosi, si annullerebbe.

    Roberto

  5. Rilancio il discorso sul post “La ricompensa divina” confidando che qualcun altro dei frequentatori del blog faccia sentire la sua voce …

    Gli amici dell’Associazione, nel loro intervento, scrivono della possibilità di poter anche intendere il termine “cercatore” in un certo particolare modo, tale per cui, dietro al termine ci sta
    “ … una non meglio specificata spinta ad osservare e partecipare alla vita senza darla e darsi mai per scontati, ….”.

    Direi che è perfetto, solo che dovremo metterci d’accordo sui termini, perché questo, nella mia personale – ed arbitraria – visione delle cose, lo tradurrei più con il termine “vivere” , anzi, meglio ancora, “vivere consapevolmente”, più che “cercare”, ma non c’è problema, se vogliamo definire questo come “cercare” va bene, molto bene.

    Nell’accezione comune, però, propria ad un certo ambiente psicologico a cui anche noi frequentatori del blog tendiamo a fare riferimento (chiaro che, per esempio, all’interno di un gruppo di finanzieri rampanti o di cattolici osservanti lo stesso “cercare”- in senso metafisico- non avrebbe senso: nel primo caso il problema non si porrebbe proprio, nel secondo sarebbe , invece, presente la convinzione di aver già trovato …), i termini “cercare” e “cercatore” sono investiti, di una valenza di “eccellenza” , di “esclusività”, di “merito” .
    Il tutto si traduce in modelli di vita e di comportamento che se da una parte fanno, della apertura mentale, una caratteristica positiva e necessaria, dall’altra però tendono, non per caso, a confinare la “ricerca” nel mondo del pensiero, delle astrazioni, nel mondo delle sovrastrutture mentali di una qualche “personalità”, di una qualche “individualità” , poiché – fino a prova contraria – è questo che avviene quando ci si confronta con una “filosofia”, un “insegnamento”, una “testimonianza” qualsiasi, quando ci si confronta con un qualsiasi “sistema di pensiero” .
    Modelli di vita e di comportamento che potranno man mano modificarsi superficialmente, a seconda delle risultanze di quella ricerca (dando così l’illusione di essere “in cammino” …) , senza che mai, però, venga messa veramente in discussione la loro natura di modelli.
    Il “cercatore” trova, infatti, in quei modelli, la sua ragion d’essere, la propria giustificazione esistenziale.
    Giustificazione esistenziale che non risulta “qualitativamente “ diversa da quelle che ogni uomo si trova costretto a scegliere per sé stesso per sopravvivere – psicologicamente- alla vita, che vanno dalla pura sopravvivenza fisica, alla ricerca del denaro, del potere, del successo (di qualsiasi tipo, compreso quello di tipo “spirituale”….) , ecc. ecc.
    Giustificazione esistenziale che non risulta “qualitativamente” diversa , perché in definitiva non è il contenuto che conta, ma l’intensità della nostra identificazione con quel particolare contenuto.
    Non è il contenuto che rappresenta il problema: il problema è rappresentato dalla nostra identificazione, assoluta e perfetta, con il modello che corrisponde a quel contenuto.
    E’ l’identificazione al modello che ci rende prigionieri – prigionieri a livello mentale – a prescindere da quale sia il contenuto del modello.
    In questa ottica, se effettivamente, alla fine, contasse non quello che noi facciamo, pensiamo o crediamo, ma piuttosto quanto quello che facciamo, pensiamo, crediamo ci “prende”, quanto in quello che facciamo, pensiamo, crediamo, ci “identifichiamo” , quanto ne risultiamo “attaccati” , noi “cercatori” ( mi ci metto, naturalmente, anch’io …) saremmo messi male, perché mentre agli altri, quelli con contenuti più terra terra, qualche dubbio prima o poi potrebbe anche venire, a noi questo risulta molto più difficile , poiché il nostro contenuto noi tendiamo a proclamarlo “elevato”, “santo” non solo “importante”, facendolo risultare, quindi, molto più difficile da mettere in discussione .

    Tutto quanto descritto a proposito dell’accezione, comunemente intesa, del “cercatore” , risulta però ben diverso da quel semplice (semplice, ma non facile …) “osservare e partecipare alla vita senza darla e darsi mai per scontati, ….”, di cui sopra, che si prefigura, almeno come possibilità, come potenzialità, come un semplice “atteggiamento mentale” invece che come “modello”.
    Come fattore di fluidità e indeterminatezza invece che di cristallizzazione e definizione….

    O no?
    Ai posteri – nel senso degli estensori dei prossimi interventi – l’ardua sentenza ….

    Roberto

  6. Io credo che il termine “cercare” possa essere più consono in quanto rimanda ad un’idea di movimento interiore mentre “vivere consapevolmente” rischia di illudere di trovarsi già in questo stato e quindi va già tutto bene così, non c’è bisogno di mettersi in discussione. Lo stesso intervento di Roberto “cerca” un confronto con altri lettori.

    Io mi trovo qui, sento che qualcosa di me stessa e della vita mi sfugge, sento che c’è un significato dietro l’apparente caos della vita. Però mi rendo conto che non riesco a fare a meno di guardare le cose attraverso i modelli che mi hanno insegnato. Allora mi metto in cammino e “cerco” altri modelli più ampi, come quelli offerti dalle filosofie spirituali. Ma so che sono solo mezzi, come una macchina che mi può portare solo fino ad un certo punto, e poi starà alla mia apertura scegliere un altro mezzo o andare a piedi. Dove non lo so, ma se non mi muovo vengo inghiottita dai modelli abitudinari che ho assimilato nel tempo. Ho bisogno di entrare in un altro modello per togliermi dall’identificazione di quello precedente e osservarne le trappole e i meccanismi, così come a volte è più facile staccarsi da un rapporto sentimentale ormai spento grazie all’ingresso nella propria vita di un’altra persona.

    Credo che sia inevitabile aggrapparsi di volta in volta a dei modelli che rappresentino la propria ragion d’essere, perché potremmo forse impazzire senza un graduale percorso. Il problema è tenere sempre presente il fatto che non saranno mai il fine ma solo il mezzo di uno stato di coscienza sconosciuto. Mi viene in mente quel discepolo di Gurdjeff che voleva vedere subito la realtà di se stesso. Nonostante il suo maestro gli disse che ci voleva pazienza e tempo, lui ha insistito con forza fino a convincerlo. Il risultato è che è impazzito e dopo tre giorni è morto.

    Già solo per confrontarci attraverso un blog dobbiamo per forza fare affidamento ai nostri modelli di pensiero per comunicare. Anche se volessimo comunicare qualcosa che è al di là, non potremmo farlo. Quindi, non potrà mai esserci qualcuno che ha superato se stesso in grado di “spiegarci” come fare, ma potrà solo stimolare a farlo attraverso inevitabili modelli. Il famoso dito che indica la luna.

    In conclusione mi pare che dal di fuori sarà sempre impossibile capire se una persona è realmente riuscita a trascendere tutti i modelli di pensiero oppure se è completamente immersa in uno di essi, pur nascosta dietro bellissimi concetti spirituali. Solo nel nostro intimo possiamo cercare la verità di noi stessi.

  7. Premesso che nessuno, men che meno io che faccio del dubbio la mia fondamentale condizione di indagine, ha in tasca la “Verità”, vorrei porgere, all’attenzione di tutti i frequentatori del blog , alcune mie considerazioni molto personali e molto particolari, che prendono anche spunto dalle parole di Sabrina, sul tema del “modello” .
    Non fate caso se non sono espresse usando il condizionale, come sarebbe più giusto, ma appaiono come asserzioni definitive: in realtà non lo sono e le sottopongo alla verifica da parte di tutti.

    In ogni parte del mondo, sotto qualsiasi cultura, qualsiasi religione, a prescindere dall’appartenenza a questo o quello gruppo sociale, ogniqualvolta nasce un bambino, comincia a operare in lui, automaticamente, il meccanismo che crea la personalità, che crea l’”io”.

    Dal momento in cui il neonato riconosce che quella serie di suoni prodotti dalle corde vocali dei suoi genitori ha a che fare con lui, indica lui stesso, passando per la scoperta dei pronomi “io” e “mio” e alla conseguente definizione di concetti come il “mio” corpo, la “mia” casa, la “mia” famiglia, i “miei” giocattoli, via via, all’interno di un ben preciso meccanismo di “auto-definizione”, di “definizione di sé”, il bambino prenderà sempre più coscienza di sé stesso.
    Questo meccanismo continuerà a funzionare, in automatico, giorno dopo giorno ed ecco allora che il bambino comincerà ad identificarsi con un genere (maschio o femmina), con le cose che possiede, con il corpo percepito dai sensi, con la nazionalità, con la religione, ecc. ecc.
    Si identificherà con i ruoli che verrà man mano a rivestire: di bambino, di figlio, di scolaro, di studente, di giovane, ecc. ecc.
    Coltiverà ricordi speciali, cose successe solo a lui, che fanno parte e caratterizzano la sua storia, la sua vita, definendo ancora di più il proprio senso del sé.
    Così avanti, anno dopo anno: i suoi amici, la sua ragazza, la sua casa, la sua professione, i suoi figli, le sue scelte, culturali , politiche, di fede, ecc. ecc. .
    Tutto ciò rappresenterà, nel tempo, la coscienza e la visione che avrà di sé stesso, diventerà il peculiare e personale “punto di vista” da cui osserverà e si rapporterà col mondo.
    Visione di sé e punto di vista che si troverà a modificare man mano nel corso degli anni, sempre sotto l’azione di quel meccanismo automatico , in adattamento alle esperienze nel frattempo intervenute.

    Questa rappresenta, al di là di ogni speculazione mentale, la nostra reale condizione esistenziale.
    Si tratta in definitiva , come succede nei film di spionaggio con i personaggi che devono ricrearsela, della creazione della nostra “identità”.

    Quando parlo di modello di comportamento e di vita è a questo che mi riferisco.

    In tutto questo, la parte che riguarda i modelli di pensiero (il pensiero occidentale piuttosto che orientale, per esempio, …) rappresenta solo un aspetto parziale e superficiale rispetto al tutto.
    Nel corso della nostra vita possiamo anche avere l’idea di star adottando dei modelli esterni diversi , ma, in realtà il modello è unico ed è “interno”, e la percezione di cambiamento fa riferimento solo all’ultima superficiale modifica.

    Noi “siamo” il modello, siamo il prodotto della nostra “identificazione” con il modello.
    Ci identifichiamo, cioè, in maniera così piena e assoluta nel modello che noi stessi, sotto l’impulso di quel meccanismo automatico, abbiamo elaborato nel corso della nostra vita, da “coincidere” con quel modello, da “confonderci” con quel modello fino arrivare ad “essere” quel modello.

    Questo modello rappresenta, allora, da una parte la nostra unica possibilità di espressione in questo mondo (ed in questo senso rappresenta effettivamente – come dice Sabrina – un mezzo) dall’altra, però, rappresenta anche la nostra “prigione mentale” , l’invisibile prigione in cui, per bisogno di sicurezza, ci siamo inconsapevolmente rinchiusi.

    E’ possibile, per noi, riuscire ad uscire da questo modello?

    Come dice anche Sabrina, per noi non è possibile prescindere dal modello che abbiamo costruito per noi stessi, anche perché, come detto, esso rappresenta l’unico mezzo a nostra disposizione per manifestarci in questa realtà.
    Non possiamo uscirne, anche perché la costruzione di quel modello non è avvenuta, da parte nostra, in maniera libera e cosciente , ma condizionata e inconsapevole, sotto l’azione automatica di quel meccanismo che ci continua a spingere, in ogni istante della nostra vita ad una nuova e continua “definizione” di noi stessi.

    E’ chiaro che, allora, la vera discriminante non è fra un modello e l’altro, fra uno o l’altro adattamento del modello, ma fra un modello qualsiasi e “nessun” modello.

    Ma poiché questo ci risulta, però, in questo momento, comunque impossibile, può avere un suo significato, può rappresentare un “valore”, già il solo “sapere “ , essere coscienti , di essere dentro un modello, di essere dentro un’”identificazione”?

    E, poiché quel meccanismo automatico funziona in maniera assertiva,
    creando categorie e distinzioni, scale di valori e scelte di campo, può avere un suo significato, può rappresentare un “valore”, il fatto di rimanere, come atteggiamento mentale , in uno stato di fluidità e di indeterminatezza?

    “ …osservare e partecipare alla vita senza darla e darsi mai per scontati ….”

    e senza “pensare” – aggiungo – di dover o poter giungere da qualche parte (il che corrisponderebbe a darsi, definendo il fine, anche il modello per perseguirlo …) …

    Può questo rappresentare la “chiave” per poter mettere in crisi quel meccanismo automatico?
    Può rappresentare il grimaldello capace di criccare quel meccanismo , permettendoci, finalmente, di andare oltre a noi stessi a vedere cosa c’è?.

    Roberto

  8. Pur non potendo rispondere con assoluta certezza alle ultime domande poste da Roberto…

    “Può questo rappresentare la “chiave” per poter mettere in crisi quel meccanismo automatico? Può rappresentare il grimaldello capace di criccare quel meccanismo, permettendoci, finalmente, di andare oltre a noi stessi a vedere cosa c’è?”

    … non possiamo nascondere che, al momento, questo tipo di atteggiamento interiore / predisposizione verso la vita, appare ai nostri occhi come la vera chiave di volta in grado di fare la differenza dal “già conosciuto”.

    Sarebbe però interessante a questo punto riflettere anche sul come poter mantenere sempre viva questa predisposizione, perché ogni attimo della vita quotidiana la mette in qualche modo alla prova, e il solo esserne razionalmente consapevoli non offre nessuna garanzia.

    A tal proposito, troviamo ad esempio molto realistica e concreta l’importanza data da Krishnamurti (ovviamente non solo da lui) alle “relazioni”, con le altre persone, con le cose. L’osservazione e la presa di coscienza di come ci relazioniamo con ciò che ci circonda appare lo strumento migliore per toccare con mano i meccanismi che ci vivono, le idee nascoste che ci governano, in altre parole: il proprio software.

  9. Una famosa storia di Lao Tse, recita:

    “C’era un uomo che viveva in un villaggio.
    L’unica cosa che aveva era uno stallone, un cavallo.
    Quel cavallo era il suo strumento di lavoro.

    Poi, un giorno, il cavallo scappò, fuggì via
    e gli abitanti del villaggio andarono da lui per dirgli:
    “Oh, siamo dispiaciuti per te, ora sei così povero”

    E lui disse:
    “Forse si, forse no”

    E il giorno dopo il cavallo tornò portando con sé venti giumente.

    Gli abitanti del villaggio andarono a dirgli:
    “Oh, sia lode al Signore, ora sei l’uomo più ricco del villaggio,
    devi essere molto felice!”

    e l’uomo disse:
    “Forse si, forse no”

    Il giorno dopo, suo figlio, cavalcando, cadde bruscamente
    e restò paralizzato.

    Gli abitanti del villaggio andarono da lui e dissero:
    “ Che sfortuna che tuo figlio sia rimasto paralizzato!”

    E lui disse:
    “Forse si, forse no”

    Il giorno dopo scoppiò la guerra e furono chiamati tutti i ragazzi del villaggio,
    ma suo figlio non fu chiamato perché era paralizzato.

    Così gli dissero:
    “Puoi ringraziare Dio, perché hai ancora tuo figlio,
    i nostri sono tutti morti in guerra”

    E lui disse:
    “Forse si, forse no” ”

    Le chiavi di lettura di questo testo possono essere molteplici (la più facile e consolatoria è quella che fa riferimento ad una logica “superiore”, ad un “piano”a cui “affidarsi”, il che vuol dire: ancora non so, ma un giorno saprò …) , ma se lo analizziamo dal punto di vista del pensiero e, in particolare, alla luce del meccanismo che attraverso il pensiero produce l’opinione, produce il giudizio, risulta chiaro come l’atteggiamento mentale dell’uomo del villaggio risulti completamente fuori dai soliti schemi.
    Perché, allora, intuitivamente egli ci appare così saggio?
    Forse perché il suo atteggiamento mentale rappresenta esattamente il contrario di quello che noi , minuto per minuto, istante per istante, manifestiamo?
    O forse perché egli manifesta la mancanza di quel meccanismo mentale, insito in noi, che ci obbliga continuamente a creare concetti, distinzioni, categorie, valutazioni, giudizi, promozioni e condanne?
    Un vecchio detto zen diceva: ” Non cercare la Verità, smetti solo di nutrire delle opinioni”.

    Cosa dice infatti, in definitiva, l’uomo del villaggio?
    Dice solo : non lo so, non posso saperlo e, per questo, non posso esprimere un giudizio.
    Questo atteggiamento di sospensione del giudizio (che corrisponde, in fondo, al nostro “partecipare alla vita senza darla e darsi mai per scontati” …), rappresenta semplicemente il riconoscimento del proprio limite.

    Perché, allora, non riusciamo a stare nel “forse si, forse no”?
    Perché sentiamo il bisogno di prendere posizione, di “definire” quello che ci sta succedendo ed ogni cosa che ci viene incontro?

    Perché, è attraverso la “definizione di noi stessi” che riusciamo a sopravvivere (psicologicamente e no).
    La “definizione di noi stessi” rappresenta il “modo” con cui ci manteniamo nel tempo.
    E’ attraverso la “definizione di noi stessi” e la conseguente adesione a modelli condivisi che inseguiamo l’illusione di una qualche sicurezza psicologica.

    Da qui, il bisogno di dare a noi stessi in quanto esseri umani e alla nostra capacità di intendere e volere, un valore assoluto, il primato assoluto sul mondo.

    In realtà, forse, noi siamo, invece, cnella stessa situazione di quelle pulci che, secondo una storiella, si fanno la guerra per definire di chi “è” il cane ….
    Si fanno la guerra, ma non sanno che il cane è, prima di tutto, di “sé stesso”, che il cane ha un padrone, che questo padrone fa parte di una famiglia, che questa famiglia fa parte di una comunità, che la questa comunità fa riferimento ad una cultura, che la famiglia vive in una città, che fa parte di uno stato, che è compreso in un continente, che fa parte del mondo, che è compreso in un sistema solare, che fa parte di una galassia, che rappresenta una piccola parte dell’universo …. (e questo riguarda solo gli aspetti materiali grossolani …)
    Non sanno niente di tutto ciò, ma se quelle pulci avessero, nel corso della loro evoluzione biologica, sviluppato, come noi, un cervello in grado di elaborare dei concetti astratti, probabilmente sarebbero giunti ad un sistema di pensiero che affermerebbe
    – che Dio ha creato la pulce a sua immagine e somiglianza …
    – che ogni pulce è “figlia” di Dio …
    – e, soprattutto, ciascun gruppo di pulci, nel corso della guerra per
    – la proprietà del cane, proclamerebbe che Dio è dalla sua parte …

    Se lo direbbero da sole, avrebbero “bisogno” di dirselo, per non dover fare i conti con la loro povera, limitata, debole natura di pulci.

    Così siamo noi.
    Siamo noi che siamo rinchiusi in questo corpo e in questa limitata coscienza.
    Che partecipiamo al tutto e tutto giudichiamo basandoci sulle nostre limitate percezioni.
    Che possiamo avere esperienza solo della parte materiale grossolana della realtà.
    Che non conosciamo nemmeno noi stessi e la complessità del nostro “sistema”.
    Che ci facciamo imbrogliare dalla nostra stessa mente.

    Questa lunga premessa, può servire ad inquadrare la questione, posta dagli amici dell’Associazione, di come mantenere viva la predisposizione verso la vita basata su quel “forse si, forse no”, su quel continuare mettersi sempre in discussione.
    Mi riferisco, in particolare, alla possibilità offerta dal prestare attenzione alle relazioni con le altre persone e con le cose, al riconoscimento, nella vita quotidiana, dei meccanismi che – come è stato giustamente espresso – ci “vivono”.
    Queste cose sono, a mio avviso, non solo importanti, ma fondamentali perché, altrimenti, risulteremmo chiusi nell’illusione del nostro cerchio senza possibilità di uscita.
    Ma, dobbiamo mantenere, sempre e comunque, la visione generale della nostra condizione esistenziale, dei nostri limiti strutturali; la consapevolezza del nostro “non sapere”, affinché questi due fondamentali aspetti – il prestare attenzione e il riconoscere come i meccanismi agiscono in noi nostro malgrado – non si trasformino nell’ennesimo modello di vita e di comportamento.
    Anche se rappresentano dei connotati fondamentali per permetterci di essere comunque consapevoli di essere “dentro” un modello, bisogna aver chiaro che essi non hanno il potere di liberarci dalla nostra prigione mentale.

    La ragione sta nel fatto che questi due aspetti fanno parte dell’ambito ristretto determinato dalla nostra coscienza e delle nostre percezioni, nell’ambito ristretto dalla soggettività delle nostre esperienze, nell’ambito ristretto della realtà materiale grossolana.

    Sarebbe come, nell’esempio delle pulci, se, noi, pulci, individuassimo nell’osservazione della nostra vita fra i peli del cane e dei meccanismi psicologici automatici che regolano quella vita, un mezzo per andare oltre la nostra natura di pulci.

    Se un mezzo esiste nell’andare oltre la nostra natura di pulci non può avere sede nell’ambito limitato che appartiene a questa natura.
    Se un mezzo esiste deve andare oltre.

    Anche perché in questo universo in cui il pensiero è energia e l’energia è in rapporto con la materia, forse, ciò che mantiene le pulci, nella loro realtà di pulci, è il fatto che loro “pensino” di essere pulci, “credano” di essere pulci e solo pulci, si identifichino completamente nella loro essenza di pulci.

    Ecco allora che il mezzo in grado di rompere il sortilegio, deve per forza, avere un respiro molto più grande della semplice osservazione da parte della pulce di sé stessa e del suo mondo.

    Quel mezzo, proprio per il meccanismo che l’ha generato e che si basa sul suo bisogno di definizione di sè, può funzionare solo se è in grado di mettere in discussione tutto: lei stessa, la sua natura, la sua vita, la sua stessa realtà.

    La pulce deve divenire consapevole che lei, il cane, il suo padrone ed ogni altra cosa collegata di cui non ha nemmeno sentore, potrebbero anche non esistere o esistere in una maniera completamente diversa da quello che lei pensa sia esistere; o che potrebbero risultare in verità infinitamente più complessi di quello che lei immagina (“ .. e se non fosse tutto qui?..”).

    Deve divenire consapevole che potrebbe anche rivelarsi il fatto che lei, in fondo, è una semplice pulce e basta, facente, si, parte del tutto, ma con un ruolo marginale, infinitesimale all’interno di un quadro immenso .

    Tutto è possibile per il semplice fatto che non ci è dato di saperlo.

    E’ da una consapevolezza di questo tipo che, a mio avviso, può nascere, come “effetto”, come “conseguenza” l’adozione di quell’atteggiamento mentale, di quella predisposizione a contrastare il nostro bisogno di definire e definirci.

    Allora si, che quell’atteggiamento può risultare vero.
    Allora si, che potrebbe anche diventare la leva capace di scardinare il tutto, capace di toglierci dall’identificazione perfetta con quello che “pensiamo” d’essere, permettendo al nostro sistema di andare oltre a noi stessi.

    Potrebbe veramente funzionare?

    … forse si, forse no. …

    ….

    Roberto

  10. Ciao Roberto e ciao a tutti i lettori e commentatori del blog.

    Roberto, sulle tue riflessioni mi butto a capofitto ed è innegabile per me il respiro di qualcosa di profondo e di insondabile che emana da ciò che scrivi.
    Ti confesso che il tuo ultimo intervento, come ogni altra cosa che desta la mia curiosità più viva, mi inquieta. O meglio, forse è la mia mente a destabilizzarsi, come se scivolasse da un gradino che non aveva previsto.

    Qua siamo ai limiti del pensiero. Per quanto ci si dica che “sì, ok, manteniamo la consapevolezza dei nostri limiti e che non sia tutto qui”, mi chiedo: riusciamo a farlo? Io no, onestamente. Me lo ricordo spesso, ma non potendo inquadrarlo non riesco a trattenerlo. Diventa qualcosa che devo andare a cercare con la volontà perchè ogni volta che mi ci immergo fugge via.
    Può un “sentire” diventare consapevolezza se ricercato con i soliti mezzi mentali (con la volontà, ad esempio)? E ho anche un’altra domanda (e paradossalmente la risposta ahah!): cosa posso fare per immergermi nel sentire di non-essere-solo-questo? (La risposta: non c’è niente da “fare”: ogni volta che si “fa” qualcosa si perpetuano gli stessi meccanismi).

    Sentendomi spesso inerme e totalmente impotente rispetto alla ricerca di un mezzo che come ben dici tu “vada oltre”, tento spasmodicamente la strada inversa: cercare di comprendere fino in fondo cosa “non” sono. La via del riconoscimento della fallacia delle proprie identificazioni può essere anche intesa così: un percorso a ritroso verso lo smascheramento di tutti quegli “io” che sono il frutto di questo e di quello (educazione, cultura, egoismo, paura, ambizione etc.). Certo, mi chiedo spesso se sfogliando gli strati della cipolla si possa trovare un nucleo che dia qualche segno di se stesso, ma rimane il fatto che fino a questo momento non abbia trovato un approccio più sensato da intraprendere.

    La mia ipotesi si regge sul fatto che quando riusciamo a valicare un nuovo strato (e “visto” realmente cosa c’era dietro) ci si sente davvero “nuovi”, come se con i nuovi occhi si riuscisse ad andare sempre più in profondità. Come se le vecchie cose, quelle di tutti i giorni, avessero perso i loro attributi e diventati improvvisamente “altri” da ciò che fino ad allora si riteneva di conoscere. Potrei sbagliarmi e questa potrebbe essere l’ennesima favola che mi racconto. Fino a suggestione contraria però mi resta ben poco da fare.

    La tua opinione ed esperienza in proposito sarebbe preziosissima. Grazie per le tue sollecitazioni e di chiunque ne abbia in proposito.

  11. Per rispondere a Silvia,
    vorrei, prima di tutto, fare una premessa sulla mia visione delle cose, perché nei miei interventi finora ne è emersa solo la parte più “destabilizzante”, che non è l’unica né la più importante.
    Il mio “sistema di pensiero”, della cui arbitrarietà – lo dico sempre- sono perfettamente consapevole, fa della analisi la sua forza e risulta credibile perché, affrontando temi universali legati alla condizione esistenziale dell’uomo -di cui ognuno può avere esperienza diretta – può essere verificato da ciascuno.
    L’analisi, però, e qui sta il primo paradosso, non é portata avanti , così come di solito, per “provare” qualcosa, ma, al contrario, per mettere in dubbio tutto quanto.
    Non per costruire nuove e più profonde costruzioni mentali, ma, tendenzialmente, per demolire quelle imperanti, di qualsiasi tipo si tratti.

    Il secondo paradosso di questo processo mentale , consiste poi nel fatto che tutto questo minuzioso lavoro di indagine , porta come risultato, alla fine , alla consapevolezza che “non possiamo sapere”, che, per “quello che siamo” non possiamo sapere, e che, quindi, ogni indagine, ogni analisi non ha senso, così come, ad un certo punto, perdono di senso i concetti, le parole, il pensiero stesso.

    Grandi sforzi per inanellare pensieri, concetti, dimostrazioni per arrivare, alla fine, … al silenzio.

    Quale è allora il significato di tutto questo analizzare, di tutto questo pensare, scrivere, parlare?
    Forse può darne un’idea il pensare alla differenza fra “semplice” e “sempliciotto” di cui si parla in un’altro post di questo blog…

    Questo silenzio, questa consapevolezza del proprio limite, poi, non sono fini a sé stessi – e qui sta un altro paradosso – ma sono funzionali proprio all’andare oltre a quel limite.
    Potrebbero rappresentare, invece, forse, proprio la “chiave” per andare oltre a noi stessi, oltre al conosciuto.

    Ma come possiamo arrivare a pensare – visto che sappiamo di non poter sapere – che ci sia effettivamente qualcosa oltre al conosciuto?

    Sono la complessità, l’ordine e l’armonia presenti in questa manifestazione che è la nostra vita e la nostra realtà, che ci possono indurre a credere (= ritenere probabile) che ci sia qualcosa oltre al conosciuto.

    Sono segni su cui, forse, possiamo fare affidamento, di cui possiamo in qualche modo “fidarci”, a cui, senza fare speculazioni, senza voler capire, segni a cui possiamo “affidarci”.

    Possiamo “affidarci” alla “vita” in genere che forse contiene già in sé quel senso che, con le nostre minuscole forze, nel nostro egocentrico interesse, andavamo disperatamente cercando.

    Già questo “affidarci alla vita” rappresenta una liberazione dalle aspettative, dalla paura di fallire, da responsabilità di cui ci siamo, a torto, caricati.

    Ecco allora che tutte le indagini mentali fatte per demolire invece che costruire, la resa alla consapevolezza del non-sapere, il silenzio, l’affidarsi alla vita – l’intero processo- può assumente un senso compiuto e giustificare la difficile, dolorosa rinuncia ad ogni genere di punto di riferimento consolatorio.

    Ma veniamo al nostro tema.

    Gli aspetti esposti in questo post per mezzo dei pochi interventi precedenti, hanno riguardato, finora, esclusivamente, come detto, l’aspetto, chiamiamolo così, destabilizzante , di un modo “convenzionale” (soprattutto rispetto all’ambiente dell’esoterismo …) di vedere le cose.
    In più , la disamina fatta, anche se apparentemente coerente e consequenziale, si basava su tante, troppe cose date per scontate, date aprioristicamente per acquisite , finendo per risultare, il tutto, troppo superficiale.
    Ci si è limitati al puro aspetto psicologico, affrontato, oltre tutto, arrivando subito a delle conclusioni, che magari possono anche arrivare a colpire per la loro radicalitá, ma che sembrano non poggiare su basi solide, convincenti.

    Si è parlato, per esempio, genericamente di un certo “meccanismo” in senso lato che se da un lato può risultare, come concetto, abbastanza intuitivo, in realtà é rimasto indeterminato.
    Krishnamurti , invece, ne fornisce una analisi esatta e chiarissima, in grado di interpretare TUTTI i meccanismi mentali che agiscono in noi.
    Mi riferisco a quel meccanismo che attraverso il doppio salto nel tempo nel passato (memoria) e nel futuro (immaginazione) crea il “tempo psicologico” ( cioè il senso del trascorrere del tempo), con quello, la possibilità che il “desiderio” si formi, con il desiderio, la “paura” che il desiderio non si realizzi, dalla paura il “bisogno di sicurezza” che si espleta attraverso l’adozione di un “modello di pensiero” condiviso che corrisponde alla “identificazione”.

    Nello stesso campo “psicologico” non è stato affrontato, ancora, il tema cruciale della “coscienza “.
    Di come, cioè, questa nostra “coscienza ordinaria” – cioè quella in cui ci riconosciamo – potrebbe rivelarsi anch’essa come un prodotto del meccanismo di cui sopra.
    Di come, nel corso dello sviluppo psicologico di un bambino, il meccanismo crei, nello stesso tempo, “identificazione” (cioè la definizione di sé stesso ) e “coscienza” ( cioè la coscienza di sé)…

    Non sono stati affrontati tante altre questioni come legate sia agli aspetti psicologici che, per esempio, quelle che fanno riferimento agli aspetti sottili presenti del “sistema uomo” e alla realtà “sottile” – parallela a quella grossolana- e alle sue leggi , che pure ci sono e che tanto ci condizionano …

    Ecc. ecc. …

    Ad un certo punto del tuo intervento,Silvia, introduci questa semplice frase:
    ” Non c’è niente da “fare”, ogni volta che si “fa” qualcosa si perpetuano gli stessi meccanismi. …”
    Nel momento in cui questa frase cessa di essere un’ idea, un concetto intellettuale, ma diventa parte della nostra vita quotidiana, ce la portiamo dietro ogni momento della giornata, diventa consapevolezza acquisita, essa assume il potere rivoluzionario di farci cambiare “punto di vista”.
    Un piccolo, ma essenziale mutamento del punto di vista.

    Dopo di che, niente è più uguale a prima e i nostri rapporti con le cose e le persone sono cambiati per sempre.

    E questo non é che uno degli tanti aspetti che, se indagati e fatti propri, sono, forse, in grado di regalarci una nuova consapevolezza.
    Non si tratterebbe più, allora, di forza di volontà, di perseveranza a tenere un certo atteggiamento, ma dell'”effetto” derivato da quella nuova consapevolezza.

    Può funzionare tutto ciò per andare oltre noi stessi?
    Non lo so.
    Di sicuro io sono ancora ben dentro la mia identificazione e la mia coscienza …
    Forse, dovremo arrivarci, un giorno, tutti insieme …
    Ma non importa, perché – come diceva una canzone – se c’è una ” logica” non è così “tragica”.
    È se c’è una logica la cosa migliore é lasciar fare a lei.

    Sempre nel tuo intervento, Silvia, poni la questione sul fatto di indagare la propria natura cercando di capire chi “non siamo”, cercando di smascherare i nostri falsi “io”.
    Sono molto rispettoso delle scelte di ciascuno e, di solito, non mi intrometto in cose così delicate, ma ti dirò cosa mi è venuto da pensare.
    Almeno per quello che vale, perché quello che scriverò farà sempre riferimento alla mia particolare e arbitraria costruzione mentale; funziona e ha senso solo all’interno di essa.
    Se si cambiano i presupposti posti alla base, ogni valutazione salta e perde di significato.
    È poiché non sono in grado di “provare” alcunché, tutto potrebbe essere, tutto è relativo.

    Date queste premesse e posto che ogni indagine interiore é importante per conoscere sé stessi, per svelare sé stessi, il problema di ogni indagine/osservazione di sé, consiste nel fatto che da una parte c’é un “osservato” e dall’altra c’é sempre un “osservatore” , osservatore (quella parte di noi “saggia” e “avanzata” che promuove l’indagine interiore …) che starà bene attento che l’indagine non travalichi i suoi confini e non finisca per mettere in discussione perfino lui.
    Se l’osservazione di sé è importante per cominciare a conoscersi, non può, perciò rappresentare una soluzione.
    Krishnamurti (sempre lui che aveva la capacità di rendere chiare e semplici le cose più difficili da vedere …) diceva che siamo esseri “frazionati” (e che fatica facciamo per tenere insieme i vari frammenti …) e che noi, per quello che siamo, rappresentiamo, in effetti, il “frammento ” più grande.
    Osservare dal frammento più grande gli altri frammenti ( cioè i vari “io” che siamo stati e/o che risultano ancora compresi nel nostro sistema …) se da una parte svela una parte di noi, dall’altra non risolve il problema della frammentazione.
    Anche perché non interviene su quel meccanismo che ci determina, che crea la frammentazione e che si basa su un principio distintivo e affermativo.
    Anche la negazione di qualcosa, infatti, rappresenta pur sempre una presa di posizione e, quindi, in realtà, un’affermazione, una distinzione.

    Questo é quello che credo, sempre per quello che vale …

    Chiedo scusa per la prolissità e ringrazio ancora una volta l’Associazione per questo strumento che ha messo a disposizione di tutti.
    L’intervenire mi risulta prezioso perché permette a me di confrontarmi con me stesso oltre che con gli altri.
    Spero che il confronto possa continuare nell’ambito di questo blog …

    Roberto

  12. Riprendo e continuo il mio primo intervento alla luce degli ultimi commenti di Silvia e Roberto e dell’Associazione.

    Credo che non vi sia altra strada in effetti che perseguire nella propria ricerca (al di là di ogni disquisizione del termine, nei fatti siamo tutti qui a scrivere per confrontarci e quindi per “cercare” qualcosa dentro di noi) che quella di lottare per mantenere un atteggiamento fluido e indeterminato.

    E ho usato volutamente la parola lottare perché anche in questo caso, a meno che non viviamo già in uno stato di totale distacco interiore dai propri modelli e meccanismi, ci ritroviamo frequentemente a vivere dei conflitti ogni qual volta dobbiamo compiere delle scelte di vita difficili, ogni qual volta qualcuno mette in discussione il nostro operato o le nostre idee, e i casi potrebbero continuare all’infinito.

    Potremmo allora chiederci da dove nascono questi conflitti, qual è la loro natura. Sono certa che ciascuno di noi si è posto e si pone questa domanda. Ma dobbiamo fare i conti con la realtà di ciò che viviamo, e riflettere ed elucubrare solo sul nostro mondo interiore senza metterci alla prova con quello esteriore credo sia pericolosissimo, proprio perché rischia di farci creare un nuovo modello (considerato al di là dei modelli) in cui poterci sentire dei perfetti khrisnamurtiani. Perlomeno questo è ciò che mi è parso di capire dalla riflessione dell’Associazione, e comunque è quello che posso toccare con mano.

    A volte mi capita di immergermi per giorni e giorni in profonde riflessioni interiori sulla natura dei modelli e delle costruzioni mentali che mi vivono, e ho anche la sensazione di scendere parecchio in profondità. Poi succede magari che qualcuno mi manca di rispetto o stuzzica il mio amor proprio, e subito il mio equilibrio va a farsi benedire. In quei momenti mi chiedo: a cosa sono servite le mie accurate indagini interiori? È innegabile che il nostro relazionarci con gli altri e con il mondo rivela la nostra reale consapevolezza raggiunta.

    Seguendo questa linea mi sembra anche di comprende ciò che Silvia intende con la sua ricerca di “quello che non è”, come a dire: se non posso cercare direttamente la Verità Ultima, posso però riconoscere passo a passo tutto quello che non è Verità. Mi sembra una buona strada, onesta e concreta.
    Mi riesce invece più difficile comprendere concretamente ciò che intende Roberto con il problema della frammentazione. O meglio, posso comprenderlo a livello filosofico, ma non rischia di diventare un pericoloso giochino dei massimi sistemi? Come possiamo infatti confrontarci attraverso un blog senza porci in qualità di osservatori di qualcosa dentro e fuori di noi? Nel momento stesso in cui riconosciamo i modelli e i meccanismi che ci vivono, siamo già in un punto di osservazione differente e distaccato, non identificato. Altrimenti “che cosa” smette di identificarsi?

    Insomma, ciò che non trasforma completamente il mio modo di essere e reagire alla vita, potrebbe non avere nessun valore. Il considerarci osservatori, osservati o niente di tutto ciò, non potrebbe solo essere un problema di concetto più che di approccio?

    Grazie del confronto

  13. Condivido al cento per cento quello che scrive Sabrina a proposito del fatto che il campo di battaglia sia la vita quotidiana.
    Non ne esiste un altro anche se la mente tende ad allontanarci da esso e confinarci in un mondo del pensiero.
    È nella vita quotidiana che il nostro sistema ego-centrato ha modo diManifestarsi e di fare esperienza.
    È nella vita quotidiana che deve accadere qualcosa perché possa realizzarsi un reale mutamento.

    Condivido anche al cento per cento che noi siamo prigionieri della nostra identificazione e del meccanismo che l’ha creata e che non ci sia nessuno che ne sia uscito, che se ne sia affrancato.
    Anche a me é capitato di guidare ed essere immerso in pensieri profondi e compassionevoli, salvo poi mandare al diavolo quel poveretto che si era permesso di tagliarmi la strada o semplicemente procedeva più lentamente di me.
    Credo che le cose succedano proprio per svelare le nostre auto-illusioni …

    Sono anche d’accordo con Sabrina che il riconoscimento di come agiscano meccanismi in noi è di come risultiamo chiusi nel nostro modello mentale, nella vita quotidiana, sia importante e valido.

    Così come pure sul fatto che se non diventa vita vissuta, ogni elucubrazione mentale è sterile e fuorviante.

    Ma, rimane un fatto, da riconoscere, anche questo, con onestà e concretezza, che alla fine di tutto il nostro impegnarci, nonostante tutte le buone intenzioni e le energie profuse, COMUNQUE, di fronte ad una mancanza di rispetto o a qualcuno che stuzzica il nostro amor proprio, la nostra vera natura – quella che avevamo cercato di nascondere a tutti, anche a noi stessi – salta fuori per quella che è, per quella che, sotto sotto, è sempre stata.
    Anche i cambiamenti che ci sembrava aver fatto nel corso degli anni si rivelano, allora, solo superficiali, non determinanti.

    Bisogna riconoscere, con onestà e concretezza, che quello che andiamo facendo non basta, non funziona.

    Perché non funziona?
    Non funziona per quello che dice Silvia nel suo intervento: ogni volta che si “fa” qualcosa si perpetuano gli stessi meccanismi….

    Questo vuol dire che il problema non riguarda i contenuti ( cioè i vari aspetti prodotti dal meccanismo che sperimentiamo nella vita quotidiana e la nostra relazione con essi) ma la forma ( cioè il “modo” in cui il meccanismo determina noi, mentre il resto è solo una conseguenza).

    Allora, forse, si può comprendere che prestare attenzione e indagare i nostri rapporti con gli aspetti della vita quotidiana non produce un cambiamento reale e profondo, ma un semplice “adeguamento” progressivo del sistema a delle nuove sollecitazioni provenienti dall’esterno.

    Forse, invece, occuparsi del “modo” con cui il meccanismo ci vive, potrebbe – e ripeto, potrebbe, é solo un’ipotesi da verificare insieme – rivelarsi determinante.

    Quest’ultima cosa ho fatto, nel corso degli anni , e il risultato è stato che andando ad analizzare il “come” il meccanismo ci determina e tutte le implicazioni correlate, si giunge appunto alla paradossale conclusione che, proprio per come il nostro essere risulta determinato (determinato non condizionato …) da quel meccanismo, qualunque cosa “facciamo” nulla può , in funzione di un reale mutamento, perché è proprio il “fare” in generale che perpetua il meccanismo.

    Nell’esaminare il “come” quel meccanismo ci determina sono arrivato, con mia sorpresa, anche alla evidenza che ogni nostro pensiero, ogni nostra convinzione si basano su basi soggettive e arbitrarie.
    Che niente può essere dichiarato vero, perché niente può essere provato.
    Che qualsiasi cosa pensiamo di “sapere” rappresenta, in realtà , solo un prodotto soggettivo e arbitrario della nostra mente.

    Ogni ulteriore elucubrazione sui “massimi sistemi” cessa allora di significato e tutto si relativizza.

    Tutto si relativizza anche e soprattutto nella nostra vita quotidiana: rimaniamo ancora presi dentro la nostra identificazione perché non possiamo farne a meno, ma cominciamo a non crederci più del tutto.
    Si può creare, allora, una distanza fra noi è le cose che ci capitano, fra noi è le nostre stesse percezioni ed esperienze.
    L’attaccamento nei confronti delle cose e delle persone perde di forza ….
    Il mantenere un atteggiamento fluido e indeterminato diventa una conseguenza e non una auto imposizione …
    Rispondere con un sorriso a chi ci manca di rispetto diventare logico e naturale …

    Può tutto ciò bastare per mettere in crisi il meccanismo?
    Non lo so e quando dico che non lo so è che proprio non lo so, per questo ho bisogno del confronto con chi si pone le mie stesse domande.
    Qualcun altro può vedere delle cose che non vedo io …
    Qualcun altro può riuscire là dove, mi sembra, non sto riuscendo io …

    Roberto

    PS: non sono un “krishnamurtiano”: di K. ritengo geniale la capacità di analisi e la capacità di illustrare le cose, ma divergo completamente nelle conclusioni.
    Ben lo sanno gli “Amici di Krishnamurti “con cui ho avuto tante discussioni …

  14. Per rispondere a Roberto, credo che per “indagine interiore” si possano intendere diverse cose. Generalmente non cito pensatori del calibro di Krishnamurti perché le sue parole possono essere intese in modo molto differente (credo che faccia parte del gioco di un messaggio inafferrabile) ma, se vogliamo, lui stesso afferma che occorra passare dalla “melma” prima di vedere la luce. Rendersene conto, osservarla, toccare con mano con cosa in ogni istante ci identifichiamo e le conseguenze di questo. Può farci fare un salto tutto ciò? Forse si, forse no, ma di certo i parametri su cui si poggiano le proprie radicali convinzioni cadono per lasciare spazio a qualcosa di diverso.
    Sono perfettamente d’accordo con te quando dici che l’osservatore non può afferrare l’osservato. L’indagine interiore alla quale mi riferivo infatti non può avvenire in solitaria. Il lavoro sulla nascita dei conflitti di cui parla Sabrina, per esperienza e non solo per “idea”, è per me obbligatoriamente relazionale.
    Sul fatto che “prestare attenzione e indagare i nostri rapporti con gli aspetti della vita quotidiana non produce un cambiamento reale e profondo” non sono d’accordo, a meno che tu non intenda un lavorarci sopra passivo, teorico e non pratico. Scusami se uso le parole di un’altra persona, lo faccio perché mi accorgo di non averne di migliori: “quello che conta davvero è la pratica che dobbiamo fare in ogni momento con quello che sembra ferirci, o minacciarci, o farci dispiacere – sia che si tratti di difficoltà, o di colleghi di lavoro, o della nostra famiglia, o dei nostri partner, chiunque. Finchè nella nostra pratica non abbiamo raggiunto il punto dove reagiamo pochissimo, un’esperienza di illuminazione (nota mia: di qualsiasi cosa si tratti o che intendiamo) è totalmente inutile.” (Charlotte Joko Beck). Una volta che ho compreso, visto chiaramente il meccanismo di reazione (il “come” il meccanismo funziona, come dici tu), conosco meglio il sistema e posso aprirmi (solo allora!) al “non fare”. Vedere che succede, osservare l’arbitrarietà delle mie elucubrazioni, abbandonarmi al non conosciuto e quello che vogliamo. Prima di allora si tratterebbe di una resa senza consapevolezza che somiglia di più ad un “lasciamo perdere, tanto è tutto illusione” e continuare a sguazzare nei soliti parametri.
    I parametri sui quali posso stabilire un po’ più chiaramente a che punto mi trovo svolgendo un lavoro del genere sono solo i fatti: non ciò che penso, ciò che credo o le impressioni personali.
    Cosa c’è in fondo al tunnel? Non lo so ovviamente. Ma almeno lavorando sulle mie magagne riesco a ricordare a me stessa dove mi trovo: non in un paradiso terrestre in cui devo trovare il modo di adattarmi per essere felice, ma in un cunicolo che devo conoscere per ritrovarmi di fuori.

  15. Nelle tue parole, Silvia, sento una contrapposizione dura nei miei confronti.
    Perché?
    Non mi sembra di essere mancato di rispetto a qualcuno, né di averne denigrato le idee o gli atteggiamenti.
    Questo potermi confrontare con altre persone su temi come i meccanismi mentali, l’identificazione, i modelli , ecc. , mi é sembrato come un regalo inaspettato offertomi dalla vita e questo testimonia della mia stima rispetto chi, a questo confronto, si é prestato.

    Certo si è arrivati al punto in cui le posizioni divergevano, ma, forse, proprio lì iniziava il confronto vero.
    Personalmente ho cercato di porre in evidenza le differenze di visione motivando queste differenze con un ragionamento in linea con i confronti precedenti e mi aspettavo un contraddittorio basato sulle cose di cui ci eravamo confrontati e, mi sembrava, riconosciuti.

    Naturalmente non c’è problema: ognuno ha la sua sensibilità ed è giusto che segua la strada che sente propria.

    Il fatto è, Silvia, che per anni e anni ho sbattuto il naso nel circolo vizioso della vita (quotidiana naturalmente) finché non mi è parso di riconoscere la radice del problema nella incapacità nostra di uscire dai nostri schemi mentali, nel paradosso che più “facciamo” per liberarci, più ne restiamo avviluppati.
    Cercando una via d’uscita ho pensato di individuarla nella messa in crisi del meccanismo che ci determina, la possibile risposta.

    Da allora sto cercando di condividere con qualcuno questa possibilità, ma poiché il confronto arriva fino ad certo punto e poi si blocca, probabilmente sto sbagliando tutto.

    Quello che, lo confesso, mi ferisce, nell’intervento, è che si possa pensare che io mi tiri fuori o mi senta già tirato fuori dalla ” melma” della vita: so, come ho scritto, che il campo di battaglia è la vita quotidiana e non il mondo del pensiero, e sicuramente, non sottovaluto la nostra battaglia interiore.

    Così come mi ferisce che si possa pensare ad un mio atteggiamento passivo rispetto alla vita stessa: il ” non fare” non significa “non fare”, non sarebbe giusto e, fra l’altro, neanche possibile.
    Il ” non fare”, nella mia visione delle cose, ha a che fare esclusivamente con il coinvolgimento emotivo, con l’identificazione con quello che si fa, si pensa, si crede e non con un’attività .
    Mi dispiace di non essere stato in grado di comunicarlo.

    Per quanto riguarda le differenti visioni, queste nascono, almeno secondo me, semplicemente da presupposti di partenza diversi.
    In questo caso la discrepanza riguarda la differente valutazione su “chi” siamo noi:

    o siamo esseri condizionati dall’io, dall’egocentrismo, dalla cultura, ecc. ecc., allora abbiamo la possibilità teorica, attraverso un lavoro profondo su noi stessi, di affrancarci e ritornare ad una dimensione naturale,

    o noi siamo, in tutto e per tutto, quell’io, e allora l’unica possibilità di affrancamento ( e di annullamento) risiederebbe nel mettere in crisi il meccanismo che ci ha creato e che ci mantiene.

    Si tratta di due “idee” diverse ed in quanto “idee” ambedue tendenzialmente indimostrabili.

    Un caro saluto a tutti
    Roberto

  16. Caro Roberto, sono molto sorpresa di quello che, senza dubbio, è un grande equivoco. Ho riletto il mio intervento e non riesco proprio a trovare la contrapposizione dura nei tuoi confronti che hai visto… ti assicuro che non c’è “cellula” di me che si sia alterata, anche perché non riesco a cogliere niente nelle tue parole che potrebbe irritarmi ma, anzi, un onesto tentativo di confrontarsi. Evidentemente non mi sono espressa bene o forse il tentativo di scrivere in modo più onesto e schietto potrebbe dare ad intendere una cosa che non è. La mia riflessione voleva mettere in luce quello che penso in generale, non una critica sul tuo operare ma sui rischi che per mia esperienza ho vissuto attraverso l’approccio che sembravano delineare le tue parole.
    Insomma, ciò mi dimostra ancora una volta quanto sia delicato e interpretativo un confronto epistolare, e che davanti alla famosa “pizza” proposta dall’Associazione le cose sarebbero molto diverse…
    Mi ritiro da questo confronto, ma considerami a disposizione con altre modalità che non siano scritte.
    Un saluto con affetto,
    Silvia.

  17. Mi dispiace se ho equivocato e sono molto contento che sia stato tutto un grande fraintendimento.
    Credo anch’ io che sia meglio trovarsi di persona e vedo di riuscire a rendere possibile, per iniziare, quella pizza.

    A presto
    Roberto

  18. Ciao a Tutti, ho letto con interesse i vostri interventi ed avrei una domanda per Roberto che parla dell’importanza del fare e del confrontarsi:
    “Da allora sto cercando di condividere con qualcuno questa possibilità, ma poiché il confronto arriva fino ad certo punto e poi si blocca, probabilmente sto sbagliando tutto”
    Vista la possibilità che ti è stata data di un confronto che cerchi da tempo, sei andato a mangiare la pizza? se, si attendiamo notizie sul confronto. Se, no perchè?

  19. Anch’io avrei una domanda per Denis: come mai lo chiedi a me se c’é stata la pizza e non all’Associazione?
    Comunque la ragione per cui, come probabilmente sai giá, la pizza non c’é stata é che sono di Bolzano e, in questo periodo , lavoro tutta la settimana a Trieste.
    Poiché gli amici del Per Hankh fanno capo a Torino, capirai che non é molto facile trovare l’occasione.
    È l’occasione vedrai, ci sará .

    Un caro saluto a tutti.
    Roberto

  20. Confermiamo le distanze che ci separano, anche se ad onor del vero c’è già stato un fugace incontro davanti a un buon bicchier d’acqua e a due buoni biscotti con Roberto…
    Però, così come è limitante un confronto profondo per sola via epistolare, il medesimo risultato, se non peggiore, lo si otterrebbe nel riportare le “notizie sul confronto”.
    L’invito e la possibilità di incontrarsi vale ovviamente per chiunque, ma onestamente noi non ci sentiamo in diritto nè in dovere di fare poi seguito con dei resoconti.
    Grazie a tutti

  21. Ciao Roberto,
    Grazie della tua risposta, la mia voleva essere una piccola provocazione dato dal fatto che erano 15 giorni che non scrivevi più e pensavo che dopo i post con Silvia ti fossi allontanato dal confronto, e mi faceva specie dopo che avevi scritto che il tuo dispiacere è che “il confronto arriva fino ad certo punto e poi si blocca”
    Il fatto che tu ribadisca la volontà di incontrarsi e confrontarsi mi rende felice.
    Poi, magari, visto che io abito tra Torino e Bolzano se possibile a “mangiare la pizza” andiamo insieme, anche a me piacerebbe confrontarmi con Voi su questi temi.
    Un Caro Saluto

  22. La mia disponibilità al confronto, caro Denis, non viene mai meno semplicemente perché nasce da un bisogno profondo.

    Quello di cui, però, non sento proprio il bisogno è la contrapposizione, lo scontro fra due posizioni, la polemica che nasconde la volontà di “con-vincere ” l’altro o, comunque, di difendere quelle convinzioni a cui si risulta aggrappati.
    Piuttosto preferisco ritirarmi, con un sorriso, prima ancora che le cose prendano una certa piega.

    Diverso è invece se mi rendo conto che al di là delle differenze di impostazione c’é la curiosità, l’interesse, c’é la disponibilità a mettersi veramente in gioco.

    Se c’è la capacità di comprendere che il confronto in realtà non avviene mai sui contenuti (se sia giusta o no una certa cosa, se una cosa corrisponda o no alla Verità ) , ma sui “presupposti/preconcetti” che stanno alla base delle nostre costruzioni mentali, cioè, del sistema di pensiero che ci siamo costruiti nel corso della nostra vita, che rappresenta la fonte delle nostre convinzioni.
    Quei contenuti sui quali ci stiamo confrontando/scontrando rappresentano solo una conseguenza dei vari sistemi di pensiero e il confronto, circoscritto su di essi, risulta, perciò, sterile.
    Questo anche perché sappiamo bene che la modifica del contenuto comporterebbe la messa in discussione di quel sistema di pensiero così faticosamente formato nel corso della vita e ci guardiamo bene dal mettere in discussione quella cosruzione mentale in cui ci identifichiamo completamente fino a dirci ” questo è quello che penso io” “questo è quello che sono io”, e a cui, per questo, risultiamo, in maniera spasmodica, attaccati.

    Mi spiego meglio: io posso cominciare a parlare con un cattolico di temi importanti che riguardano l’uomo in generale e per un certo tempo, fin che si sta su un piano superficiale, potrebbe anche, in qualche modo, funzionare, ma se, nel momento in cui si scende più in profondità e si comincia ad affrontare temi più personali, questi reagisse ponendo, per esempio, come pregiudiziale la sua fede nella Chiesa Cattolica quale unica tenutaria della “VERITÀ” prendendo quindi come riferimento unico per le sue posizioni quello che la Chiesa afferma sul tale o tal altro argomento, allora, a quel punto, il confronto sarebbe finito.
    Il confronto con me che pongo come uno dei presupposti principali della mia (personale ed arbitraria) costruzione mentale, del mio sistema di pensiero, la necessità di essere liberi da ogni convinzione, da ogni fede, da ogni autorità, compresa quella rappresentata da me stesso, non è più possibile.
    È come se ad un certo punto quel interlocutore dimenticasse la sua essenza realtà di “essere umano” , per calarsi, in cambio di una certa illusoria sicurezza, nel ruolo di “cattolico” (o, anche naturalmente, di “buddista”, di “gnostico”, di “amico” di Krishnamurti, o, più semplicemente, di “Cercatore Spirituale” anche se, ponendosi in un’ottica più “avanzata”, distinguendo fra movimenti religiosi “buoni” e movimenti religiosi “pericolosi”, fra “maestri spirituali” seri e “maestri spirituali” che si approfittano degli altri o che illudono sé stessi …..), rinunciando così alla propria libertà interiore.

    Certo può continuare poi ad esserci comunque fra le persone di buona fede , rispetto, condivisione umana e anche amicizia ed affetto, ma un vero “confronto” , quel confronto in cui due o più esseri umani, senza illudersi di star travalicando la propria natura, ponendosi in assoluta libertà e rispetto reciproco ad indagare su sé stessi e sulla realtà che sperimentano, non è più possibile.

    Ed è un gran peccato che finisca, (quasi) sempre, così.

    Spero che il trovarsi davanti ad una pizza porti poi ad altre occasioni di incontro e, chissà, che da cosa non nasca cosa …

    Roberto

  23. la Maestria è ottenuta da colui che diventa un Uomo, cioè quando riceve la quinta iniziazione. Il Maestro perfetto è colui che è arrivato a realizzare la Grande Opera.

    si diventa MAESTRO RISORTO quando un adepto rinuncia alla felicità suprema del Nirvana per Amore verso l’Umanità, può chiedere l’Elisir di lunga vita. Coloro che hanno la possibilità di ricevere questo Elisir, “muoiono, ma non muoiono”. Il terzo giorno risuscitano e conservano il loro corpo fisico per milioni e miliardi di anni.

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