A proposito dei veri Maestri

vero_maestroDalla lettura del secondo volume autobiografico di Omraam Mikhaël Aïvanhov – “Alla scuola del Maestro Peter Deunov” – emergono interessanti prospettive sulla figura di colui che potrebbe essere definito un vero Maestro spirituale.

Per tale ragione vi riportiamo qui di seguito alcuni pensieri dell’autore, da noi liberamente estrapolati e collegati:

In un essere di grande spiritualità, la cosa più sorprendente non è la perfezione dei tratti. Quali che siano i suoi tratti, la vera bellezza di quell’essere è nella sua luce, in tutto ciò che da lui emana. Anche quando il Maestro tace, tutto il suo essere parla; e quando lui parla, tutto il suo essere viene a sottolineare la sua parola. Egli è un libro vivente. I libri, una volta letti, vengono riposti su uno scaffale e dimenticati. I libri viventi invece non permettono che li si dimentichi, si impongono continuamente alla vostra memoria. Sono questi libri a farvi comprendere la differenza che esiste tra un sapere intellettuale e un sapere vivo.

Un’altra cosa che colpisce di un Maestro sono il ritmo, l’armonia che introduce con i gesti, la parola e l’atteggiamento. Un simile ritmo non lo si costruisce artificialmente, non appare per caso in un essere: è il risultato di una grande conoscenza delle leggi della vita. Un Maestro non abbandona mai il suo atteggiamento semplice e vero, non esce mai da quell’armonia, da quel ritmo meraviglioso che dà peso e significato a tutto quel che fa. Egli non è mai indifferente a quello che accade intorno a lui, ma mentre in alcune circostanze gli altri si preoccupano e si agitano, egli conserva sempre lo stesso ritmo.

Un Maestro non viene per permettere a questo o a quel discepolo di realizzare i suoi desideri personali, anche se fossero i più legittimi e i migliori, ma è paziente, aspetta che la coscienza del discepolo si espanda e che questi comprenda come deve partecipare con il suo Maestro a un lavoro in grado di trascenderlo da una condizione di sonnolenza interiore.

Un Maestro attira l’attenzione sui vostri errori e le vostre lacune, dandovi anche i mezzi per porvi rimedio, affinché questi errori non vi conducano a soffrire più tardi per le conseguenze. Egli si rivela dunque il vostro miglior amico. Le persone, per la maggior parte, vi fanno osservazioni solo quando le vostre azioni o le vostre parole le disturbano; in caso contrario lasciano che siate voi a sbrogliarvela, oppure spesso vi approvano per farvi piacere, o perché traggono qualche vantaggio dai vostri errori.

Un Maestro vi lascerà sempre liberi di agire come volete, ma vi dirà ciò che vi deve dire senza fingere di approvarvi per qualsiasi cosa. Così facendo egli vi offre sempre le chiavi per indagare le cause dei vostri malesseri, che vengono rivelate innanzitutto dalle vostre azioni e dalle vostre incoerenze.

Il Maestro rappresenta la vostra coscienza, quella parte di voi che non siete abituati a prendere in considerazione. Ecco perché a volte è sufficiente e necessario evocare anche solo nell’immaginazione la presenza del vostro Maestro per sentirvi approvati, incoraggiati oppure rimproverati. La sua presenza risveglia e richiama in voi quel profondo nucleo nascosto dal continuo flusso dei pensieri.

La figura di un Maestro da tenere come riferimento, sia esso vivo o già morto da tempo, è molto più importante di quanto si possa immaginare, al punto da considerarsi come una pratica spirituale fondamentale in molte tradizioni.

Una storiella indiana racconta di un Maestro che aveva come discepolo, tra i tanti, un giovane il cui amore e venerazione per lui erano tali che egli non smetteva mai di ripeterne il nome come un mantra magico. Un giorno il ragazzo fu visto camminare sulle acque del lago. Il prodigio fu riportato al Maestro, il quale, stupito, lo fece chiamare e gli disse: “Mi sono state raccontate sul tuo conto cose straordinarie. Pare che tu riesca addirittura a camminare sulle acque. Come fai?” “Oh, Maestro” – rispose il discepolo – “è molto semplice: mi concentro sul tuo nome e lo pronuncio con amore”. Il Maestro pensò che avrebbe sicuramente potuto fare altrettanto; andò al lago, mise un piede nell’acqua pronunciando il proprio nome… e annegò!

Il fattore più importante non è dunque solo il grado di saggezza del Maestro, ma anche ciò che egli rappresenta per voi e il tipo di consenso che date a questo simbolo. Il Maestro non è che un mezzo. Coloro che immaginano che la propria evoluzione spirituale sarebbe stata facilitata se avessero avuto un istruttore più saggio e più potente, si sbagliano.

Se il Maestro della storia avesse avuto a sua volta un Maestro che gli avesse ispirato la stessa fiducia e lo stesso amore, anch’egli avrebbe potuto camminare sulle acque. Ciò rivela quanto possa essere fuorviante e pericoloso considerarsi maestri di se stessi, escludendo la possibilità che qualcuno dal di fuori possa supervisionare sulla propria vita, anche e specialmente con schiettezza e severità.

Con la scusa che si incontrano spesso degli imbroglioni e degli squilibrati che si nascondo dietro parvenze spirituali solo per trarre vantaggio economico o per trarre notorietà, è forse ragionevole dimenticare che esistono esseri in grado di condurci sul Cammino? Obietterete ancora che è difficile distinguere un vero Maestro fra tanti falsi maestri. No, non è affatto difficile riconoscere un vero Maestro, ma a condizione di sapere chiaramente cosa si stia cercando.

La vita spirituale è una disciplina che richiede molto tempo e molti sforzi; inoltre il processo di conoscenza di sé non è mai piacevole o divertente. La Via non è fatta per chi si accontenta di prendere alla leggera certe conoscenze, o per chi si illude di poterne estrapolare solo alcune parti per proprio uso e consumo. Allora se qualcuno esordisce assicurandovi che presso di lui otterrete facilmente e rapidamente la chiaroveggenza, i poteri magici, il contatto con il vostro Sé superiore, ecc. (magari tutto questo partecipando solo a qualche seminario), diffidate.

E diffidate ancora di più se, per ottenere quei risultati straordinari, vi si chieda del denaro, indipendentemente dalla somma. La verità è che il denaro non è di alcuna utilità per progredire nella vita spirituale. La Verità non costa nulla. Tutta la creazione pulsa affinché voi possiate comprendere chi siete. Nessun vero Maestro vi chiederà mai un solo soldo per accompagnarvi su questa ricerca, ma pretenderà da voi implacabilmente che vi dedichiate a questo con tutte le vostre forze, il vostro cuore e la vostra mente.

Ecco allora che non ha senso che vi lamentiate di essere stati imbrogliati! Quando si cerca un Maestro, occorre sapere cosa ci si debba aspettare da lui. Coloro che non sanno in realtà quello che cercano, o che nascondono i propri reali intenti dietro obiettivi spirituali, ingannando anche se stessi, si imbatteranno in continue delusioni. Un vero Maestro non vi aiuterà mai a soddisfare le vostre bramosie o le vostre ambizioni, al contrario ve le porrà in luce con chiarezza.

Un vero Maestro non è qualcuno che tutto a un tratto, posandovi una mano sul capo o sulla spalla, risolverà tutti i vostri problemi o vi darà l’illuminazione. No, egli vi presenterà alcuni metodi, ma sarete voi a dover fare il lavoro con coraggio e perseveranza per svegliarvi. Quindi diffidate di coloro che sostengono di poter risolvere tutti i vostri problemi, altrimenti potrete fare anche dei bei sogni, ma in definitiva continuerete a dormire.

Se temete di essere fuorviati da una guida vivente, nessuno vi impedisce di rivolgervi a quelle guide che da tempo hanno lasciato la terra. Le loro opere sono a vostra disposizione, gli scaffali delle biblioteche ne sono pieni. Sotto diverse forme, tutte le dottrine insegnano le stesse verità. Allora sforzatevi di accordare i vostri pensieri e i vostri sentimenti ai loro, perché è allineando fattivamente la vostra vita alla loro che li potrete incontrare.

Nessuno vi rimprovererà di non aver percorso il mondo alla ricerca di un Maestro vivente. Ma nulla vi potrà giustificare se ristagnerete nella mediocrità e nell’errore con il pretesto di non aver mai incontrato qualcuno in grado di guidarvi.

E anche se incontrate un vero Maestro vivente, siate sempre vigili. Il rispetto, l’ammirazione e la venerazione che un discepolo ha per il suo istruttore deve innanzitutto servire a stimolarlo nel lavoro, altrimenti non imparerà niente. Alcuni credono nel proprio Maestro come credono in Dio, immaginando che la loro fede li salverà e che il Maestro farà miracoli per loro, ma questa è una credenza infantile e fuorviante. La consapevolezza è sempre il risultato di un lunghissimo lavoro interiore, che consiste nel cambiare il proprio modo di vivere per renderlo coerente con l’orientamento di vita che si vuole perseguire.

Un vero Maestro non vi spronerà inoltre verso l’isolamento meditativo, ma vi spingerà a legare fraternamente con altre persone che condividono i vostri stessi intenti. La tendenza degli esseri umani è infatti quella di sottrarsi alla vita collettiva di un lavoro interiore, per vivere unicamente la loro vita personale e individuale, rimanendo così al sicuro dietro le proprie idee. Credono che rimanendo al riparo dagli altri e dalle loro osservazioni saranno protetti. È un’illusione. Nell’isolamento interiore ci si espone a tutti i pericoli.

In definitiva, non è certo facile stare al fianco di un vero Maestro, poiché la forza e la chiarezza dei suoi intenti sono difficili da sostenere. Fra coloro che lo avvicinano, alcuni non scoprono in lui nulla di straordinario, perché in realtà nulla stanno cercando. Altri avvertono in lui qualcosa , ma prigionieri dei propri istinti, non sopportano la presenza di un essere che li obbliga, per contrasto, a vedersi come sono. Altri ancora ne sono attratti con grande ammirazione; lo venerano come un dio irraggiungibile e si accontentano di sonnecchiare accanto a lui, essendo incapaci di compiere degli sforzi. Infine ci sono quelli che avvertono in lui uno stato interiore non ordinario, vasto, libero, e decidono di seguirlo, ma non avendo mai imparato ad agire in modo disinteressato, non riescono a vincere la tendenza a utilizzare il suo sapere e i suoi poteri per profitto personale, distorcendone dunque la reale profondità degli insegnamenti. Solo un’esigua minoranza vede e sente la necessità di lavorare al suo fianco con sincerità e abnegazione, semplicemente perché ciò è bello e grande, ed è fondamentalmente l’unica cosa per cui vale la pena vivere.

22 risposte a "A proposito dei veri Maestri"

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  1. Cari amici,
    rieccomi qua, dopo un po’ di tempo a proporre un mio contributo su questo tema così delicato.
    Ripeto ancora una volta che apprezzo moltissimo questa vostra propensione ad interrogarvi sulle cose che riguardano il nostro esistere, sulla vostra immutata capacità di ricercare ed indagare nel mare magnum della spiritualità per cercare di individuare e isolare “semi di Verità” da condividere, poi, con gli altri.
    E apprezzo anche la grande apertura mentale, la grande libertà di pensiero, dimostrata nel corso della storia di questo blog, nel confrontarvi, con rispetto e curiosità, con i punti di vista più disparati.
    E’ su questa libertà di espressione che confido per esprimere, in amicizia e con leggerezza, il mio di punto di vista che, come potete prefiguravi, è risulta come sempre “eretico” rispetto al pensare di un certo mondo “religioso” e “esoterico”.

    Di questo brano di Aivanhov l’aspetto che più mi pare interessante ( e rappresenta la ragione per cui intervengo) riguarda l’affermazione, fatta ad un certo punto, che dice:
    “… Ciò rivela quanto possa essere fuorviante e pericolo considerarsi maestri di sé stessi …”
    Ebbene su questo (in verità solo su questo) sono perfettamente d’accordo.
    In effetti non c’è nessuna differenza fra innalzare sé stessi ad autorità invece che affidarsi all’autorità di qualche altro, poiché di questo si tratta: di affidare sé stessi ad una autorità con tutto ciò che questo comporta in termini psicologici di adesione a un modello e di rinuncia (teorica) al rimanere aperti e in movimento .
    Questa questione, posta in maniera così netta da Aivanhov è molto importante, perché, nella storia di ciascuno di noi, passata la fase delle adesioni fideistiche ad una religione, ad una chiesa, ad un insegnamento o ad un “maestro” in genere, la fase successiva passa generalmente attraverso l’illusione di essere perfettamente in grado di decidere per noi stessi, di saper distinguere perfettamente ciò che per noi è “giusto”.
    Questa prerogativa viene scambiata come una forma di “libertà”, una forma di “libertà interiore” e viene sovente definita come “libertà di coscienza”.
    Ma, come sempre, si tratta sempre di idee che ci mettiamo in testa da soli.
    Di idee che ci costruiamo a nostro uso e consumo per giustificare in qualche modo il nostro modo d’essere.
    In realtà, se ci pensiamo bene, così come la vera libertà di pensiero non consiste nell’essere liberi di scegliere la propria opinione (il che corrisponde ad aderire ad un certo specifico conformismo) , ma essere liberi da ogni opinione, così la vera libertà di coscienza non consiste nel poter scegliere la propria fede (il che vuol dire aderire ad un certo modello spirituale) ma essere liberi da ogni fede.
    Aivanhov in poche parole fa piazza pulita dell’illusione di poter essere maestri di sé stessi e questa presa d’atto non può che nascere dal riconoscimento della limitatezza e soggettività della esperienza personale di ciascuno di noi, alla limitatezza e soggettività, in definitiva, dell’esperienza umana.
    Noi esseri umani, infatti, siamo un po’ come quelle due pulci che si facevano la guerra per definire a chi apparteneva il cane …
    E quelle pulci non immaginano nemmeno – poiché il loro campo d’esperienza è parziale, le loro percezioni sono limitate – , che il cane abbia un padrone, che questo padrone abbia ha una famiglia, che vive in una città, la quale fa parte di una nazione, che questa risulti rappresentativa di una certa cultura , che questa nazione faccia parte di un consesso internazionale, che sia posta su certo pianeta, il quale che fa parte di un certo sistema solare, il tutto all’interno di una certa galassia, in un universo infinito, ecc. ecc., rimanendo nel solo campo materiale.
    Eppure, se nel corso dell’evoluzione la pulce avesse sviluppato un cervello simile a quello dell’uomo, se possedesse una minima capacità creare dei pensieri, la pulce, per coprire le proprie paure, arriverebbe ad affermare, finendo per crederci, che:
    “noi, pulci, siamo figlie di Dio …”
    “Dio ha creato le pulci a propria immagine e somiglianza …”
    E’ per questa limitazione delle nostre percezioni, unita alla nostra capacità di autoinganno e di crearci illusioni , che sono caratteristiche della condizione umana così come la sperimentiamo ogni giorno, che noi non possiamo essere guide affidabili di noi stessi.
    Poi, però, Aivanhov introduce una forzatura, in palese contraddizione rispetto a questa oggettiva limitazione del nostro essere.
    Dice non solo che , l’essere umano “normale” non può essere “maestro “ di sé stesso, ma anche che esistono degli esseri umani “speciali” che, invece,- poiché hanno già fatto una specie di salto di coscienza quantico- possono essere considerati ormai come “maestri” (anche di sé stessi è sottointeso).
    Non solo, ma questi “esseri umani speciali “ , ma devono essere assunti come “maestri” dai “normali” affinché questi ultimi possano coltivare una qualsiasi speranza di “sviluppo interiore”.

    Di fronte a questa presa di posizione i casi, dal punto di vista meramente logico, sono due: o tutto questo è vero oppure si tratta dell’ennesima consolatoria illusione .
    Si tratta, cioè, dell’ “idea” – frutto della nostra paura di vivere – che qualcun altro abbia già fatto il lavoro e che sia possibile, seguendone semplicemente gli “insegnamenti”, l’”esempio”, arrivare a trascendere la propria natura.
    Come se fosse possibile che l’adesione ad un certo “modello” di comportamento e di vita (quello proposto dal “maestro”), l’adesione all’ennesimo “modello” dopo tutti quelli di cui ci siamo vestiti nel corso della nostra vita, ci possa affrancare dalla nostra stessa natura.
    Come se non fosse magari questo stesso “aderire ad un modello” quello che ci tiene legati a questo mondo e alla nostra natura.
    Anche il sistema proposto da Aivanhov per riconoscere i “veri maestri” appare discutibile.
    In realtà, lasciando perdere gli imbroglioni veri e propri (che comunque ne rappresentano una buona parte) il suo metodo sembra più fare distinzione, all’interno di quelli in “buona fede”, fra quelli con un certo spessore umano e i poveretti che si improvvisano .
    Significativo della superficialità di queste sue considerazioni riguarda il tema del denaro là dove dice che un vero maestro spirituale non vi chiederà mai del denaro per farvi da maestro.
    Il fatto è che non è il denaro il motore che muove l’”io” che noi siamo, ma il desiderio di successo.
    Per i materialisti il successo può anche essere rappresentato dal denaro (o dal potere …), ma per le personalità più “spiritualmente “ più evolute i valori sono diversi.
    Quanto vale, infatti, il riconoscimento, da parte degli altri come essere “spiritualmente evoluto”?
    Quanto vale la devozione di un numero sempre maggiore di “discepoli?
    Significativa appare anche l’infelice scelta della storiella indiana inserita ad un certo nelle pagine riportate:
    è possibile che un vero trascendere dalla propria natura (esemplificato nel camminare sulle acque) possa nascere dalla adesione completa e assoluta ad una illusione (della “santità” del maestro)?
    E’ possibile che sia la devozione assoluta, la semplice ripetizione del nome del soggetto della devozione , la profusione a comando di un sentimento d’ “amore” verso quel soggetto che renda possibile l’uscire dalla propria condizione esistenziale?
    E’ possibile esercitare, con uno sforzo di volontà, la devozione, l’amore, la compassione?
    Non è, invece, più facile che la presunta “liberazione” non risulti, invece, l’ennesima auto-illusione?
    Che l’eccezionalità delle manifestazioni (il camminare sull’acqua non per niente preso ad esempio nel racconto) possa rappresentare l’ennesima trappola mentale, l’ennesima illusione di aver “raggiunto” qualcosa o di esserne sulla buona strada?
    (ricordiamoci che se l’eccezionalità delle manifestazioni dovesse valere come discriminante per valutare la “verità” delle cose allora con i suoi miracoli e con le sue apparizioni la Chiesa Cattolica rappresenterebbe il massimo della spiritualità)
    Certo qualcuno potrebbe dire: ma chi sei tu di fronte a uno come Aivanhov riconosciuto da tutti (tutti chi? E,soprattutto, perché?) come grande guida spirituale?
    Come ti permetti di parlare così di lui e delle cose che dice?
    Io non sono nessuno e, come sempre, dichiaro pubblicamente che non posso provare la “verità” di quello che vado affermando.
    Credo (nel senso che lo credo probabile) che noi siamo nelle condizioni di quelle che pulci di cui sopra e che, quindi, in assoluto, a prescindere, “non possiamo sapere”.
    Credo di trovarmi, quindi, nelle stesse condizioni di ignoranza congenita di tutti quanti , Aivanhov compreso.
    I miei pensieri, proprio perché pensieri (cioè prodotti di una mente) valgono quel che valgono, così come quelli di tutti.
    Potremmo , come esseri umani, rappresentare il risultato dell’esperimento degli alieni, essere effettivamente “Figli di Dio” oppure un’ altra cosa che non riusciamo neanche ad immaginare, ma non siamo nella possibilità di provare o escludere una o l’altra di queste possibilità.
    Ma credo che la vera differenza (ed è questo che vorrei indicare, agli amici che mi leggono, come possibilità di modo d’essere, come modo di porsi in questo mondo intanto che ci capita questa strana cosa che chiamiamo vita), rispetto a tutto quello che abbiamo fino ad ora sperimentato, possa essere quella di rimanere aperti, di rimanere fluidi, senza attaccarsi ancora e sempre a questa o quella “convinzione”, a questa o quella filosofia, a questo o quel “insegnamento”.
    Che questo modo d’essere senza attaccamenti mentali possa alla fine anche rappresentare la chiave per mettere in crisi la costruzione mentale che siamo.

    Ma credo anche, di conseguenza , che il consegnarsi (psicologicamente) mani e piedi ad un maestro ( e di riflesso il suo dipendere psicologicamente dal discepolo) rappresenti l’esatto contrario di questo mantenersi fluidi, di questo mantenersi in movimento e che rappresenti per ciò intrinsecamente la negazione stessa di ogni possibilità di riscatto dalla nostra attuale condizione esistenziale.
    Roberto

  2. Proviamo a riprendere per un attimo l’analogia pulci / essere umano. Le ipotesi possono essere due, non si scappa.

    Prima ipotesi: le pulci non hanno nessuna possibilità di comprendere realmente la situazione in cui si trovano (cane, padrone, ecc.), dunque tutte le loro parole e riflessioni spese a filosofeggiare sul senso dell’esistenza sarebbero solo un modo come un altro per occupare il tempo in attesa della morte. Il gioco si chiude qui, questo stesso blog ha il valore e l’utilità di uno zapping televisivo o di una sbronza al bar, o anche peggio.

    Seconda ipotesi: esiste la possibilità che una o più pulci possano in qualche modo trascendere se stesse e ampliare la propria visione al punto tale da prendere coscienza prima del cane su cui si trovano, poi del suo padrone, e così via chissà fin dove.

    Accettando per un attimo quest’ultima ipotesi… come potrebbero le pulci “comuni” riconoscere la pulce tra loro che ha raggiunto una tale consapevolezza? e come la dovrebbero considerare? e come potrebbero essere aiutate ad ampliare la propria visione della vita (posto che lo desiderino veramente e non solo a parole)?

  3. Cari amici
    sono molto contento del contenuto del vostro intervento perché così si è arrivati a parlare della nostra condizione esistenziale ad un livello tale per cui ciascun essere umano può partecipare, si può riconoscere.
    E’ possibile allora confrontarsi su questi temi universali , senza preconcetti, senza ricorrere al pensiero altrui, senza affermazioni categoriche, ponendosi reciprocamente domande, senza la necessità di convincere l’altro, indagando insieme con onestà e rispetto reciproci, sul mistero della nostra esistenza.

    So di avere un grande problema: non riesco mai a far comprendere agli altri che, anche se non sembra, anche se i miei discorsi sembrano discorsi di un ateo o di un materialista, io so che l’Assoluto esiste ed che è parte di noi.
    So che noi pulci siamo destinate, alla fine, a confluire di nuovo nella corrente dell’Energia Vivente (lasciatemi usare queste parole volutamente “aperte” piuttosto che altre ….).
    So che questo nostro vivere ha un senso e che la nostra vita segue una sua logica precisa.
    Lo so perché la manifestazione che sperimentiamo, la realtà che viviamo, si basa su delle REGOLE, è ARMONICA, è EQUILIBRATA, è COMPLESSA e , soprattutto, è IMPERFETTA.
    Se noi dovessimo creare per noi e per gli altri un mondo , infatti, creeremo un mondo ideale, creeremo un mondo perfetto, ma un mondo perfetto non funziona se il suo scopo è quello di insegnare.
    Su questi indizi, su questi segni, che posso anche verificare con la mia limitata esperienza di pulce, fondo la mia “fede”, nel senso che ”ho fede in essi”, proprio come di un uomo si dice: “ho fede, ho fiducia, in lui”.

    Noi (io e voi) condividiamo, dunque, la convinzione della necessità, per le pulci che siamo, di trascendere sé stesse e che la possibilità che questo avvenga esista (spero che su questi punti non ci siano fraintendimenti) , solo non condividiamo la visione generale delle cose e, di conseguenza, la modalità di uscita dalla nostra condizione che, basandoci su quella visione generale, ci sembra di intuire.

    Per capirci veramente, per confrontarci veramente e perché questo scambio possa diventare esperienza viva per ciascuno di noi (al di là dell’esito che questo scambio, per ciascuno di noi, avrà che non ricopre nessuna importanza …) bisogna che confrontiamo le nostre visioni generali, i nostri sistemi di pensiero e non semplicemente che ci limitiamo a contrapporre le conclusioni che da quelle derivano.

    Nessuno ha la Verità in tasca, io meno di tutti perché da tempo non coltivo più certezze, solo che, a forza di andare a sbattere, a forza di smontare, laddove il bisogno assoluto era quello di costruire, di fissare, di consolidare, di definire, a forza di mettere in dubbio, laddove tutto spingeva perché niente venisse messo in discussione, mi sono ritrovato, forse, (e non so bene come …) ad aver cambiato impercettibilmente il mio punto di vista sul mondo e ho cominciato allora a vedere le cose da un’angolazione diversa.
    E mi sembra di vederle più chiare, di riuscire leggerne la trama che si nasconde dietro.
    Su questa visione particolare vorrei continuare a confrontarmi con voi su un piano di parità e reciproca libertà, partendo dallo spunto dato dal vostro post e da questi nostri primi interventi.
    Perché credo che queste tematiche, così delicate, abbiano a che fare con la radice stessa della nostra condizione.

    Per rispondere alle questioni fondamentali da voi poste andando al di là degli slogan ho bisogno, però, di tempo (qualche giorno …), perché devo lasciare che tutto venga a galla piano piano.
    Poi, se a voi va bene, riprenderò il filo del confronto con un nuovo commento che, lo anticipo, inizierà cosi:

    “ In qualsiasi parte del mondo, nel momento in cui nasce un bambino, a prescindere dal grado di civilizzazione della società,a prescindere dalla cultura, dalla religione, dall’appartenenza sociale, sempre e in ogni caso, si mette in moto, in quel bambino, un meccanismo mentale che comincia a creare, contemporaneamente, coscienza di sé e identificazione, comincia a creare l’identità che noi siamo.
    Comincia a creare l’”io”, il “centro”, che noi siamo.
    In qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi epoca storica , in qualsiasi condizione, questo meccanismo si è immancabilmente manifestato in ogni singolo essere umano.
    Osservando questo fenomeno, però, non bisogna fermarsi alla semplicistica conclusione che “siamo fatti così” (questo vuol dire dare per scontato tutto ciò che nella nostra esperienza di vita appare sempre uguale finendo per considerarlo “naturale”).
    Questo fenomeno ci indica che noi tutti, esseri umani, siamo, in qualche maniera, collegati.
    Che nessuno può prescindere da questa condivisione immateriale.
    Che nessuno può sfuggire a questo che rappresenta il tratto fondamentale della nostra condizione esistenziale così come la conosciamo e sperimentiamo ogni giorno.
    ….”

    A presto.

    Roberto

  4. Caro Roberto, ci fa davvero piacere leggere i tuoi interventi perché trasudano una reale necessità di comprendere a fondo la condizione dell’essere umano.
    Così come ci sembra di scorgere dietro le tue parole questa Sacra Necessità, ci sembra di scorgerla anche dietro i simbolismi delle diverse Tradizioni, ed è per tale motivo che spesso ne “tiriamo in ballo” alcuni fugaci sprazzi, senza nessuna pretesa di accettazione fideistica ma solo con l’intento di stimolare nuove (o antiche) riflessioni.
    A presto!

  5. Non faccio fatica a comprendere il pensiero di Aïvanhov.
    Sono una pulce che crede e sente possibile la seconda ipotesi, il fatto che si possa trascendere se stessi.
    Per tale ragione, non escludo ma anzi considero più che plausibile il fatto che qualche pulce abbia già compiuto questo balzo di livello, e non riuscirei a trovare altro appellativo per questi esseri se non la parola “maestri”.
    Non vedo nessun limite nell’accettare con un pizzico di fiducia l’aiuto di questo genere di persone o degli insegnamenti che hanno lasciato.
    Un sistema non può trascendere se stesso con i suoi stessi mezzi ma ha bisogno di qualcosa dal di fuori che gli faccia fare il salto. Se poi non ci liberiamo dai sistemi in generale ma finiamo semplicemente in uno più grande poco importa, l’importante è non accontentarsi e continuare ad andare avanti verso sistemi ancora più vasti: pulce, cane, padrone, mondo, ecc.
    Credo anche se non sarebbe possibile per una “pulce trascesa” comunicare la sua condizione alle altre con semplici parole, concetti e riflessioni, ma avrebbe per forza bisogno di trovare escamotage per spronare a guardare le cose dal di fuori. Forse è questo il senso delle parabole, delle storie zen o dell’utilizzo di simboli invece delle argomentazioni logiche.
    Per il modo in cui possiamo riconoscere una pulce di questo tipo non saprei, forse ognuno ha il suo modo.
    Saluti

  6. Premessa:
    ho provato a condensare tutto in pochi concetti sinteticamente espressi, ma i passaggi non sarebbero risultati conseguenti, con il pericolo di finire per esprimermi a slogan: chiedo scusa e pazienza per la lunghezza dell’intervento.
    Non mi aspetto che qualcuno alla fine condivida, per una serie di ragioni, questa particolare visione delle cose, ma penso che possa comunque rappresentare in generale , proprio per la sua peculiarità, uno strumento utile per qualcuno, con il quale magari confrontarsi.
    In questo risiede la ragione di questi miei interventi.

    Commento:
    In qualsiasi parte del mondo, nel momento in cui nasce un bambino, a prescindere dal grado di civilizzazione della società,a prescindere dalla cultura, dalla religione, dall’appartenenza sociale, sempre e in ogni caso, si mette in moto, in quel bambino, un meccanismo mentale che comincia a creare, contemporaneamente, coscienza di sé e identificazione, comincia a creare l’identità che noi siamo.
    Comincia a creare l’”io”, il “centro”, che noi siamo.
    In qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi epoca storica , in qualsiasi condizione, questo meccanismo si è immancabilmente manifestato in ogni singolo essere umano.
    Osservando questo fenomeno, però, non bisogna fermarsi alla semplicistica conclusione che “siamo fatti così” (questo vuol dire dare per scontato tutto ciò che nella nostra esperienza di vita appare sempre uguale a sé stesso, finendo per considerarlo “naturale”).
    Questo fenomeno ci indica, piuttosto, che noi tutti, esseri umani, siamo, in qualche maniera, collegati.
    Ci indica che nessuno può prescindere da questa condivisione immateriale.
    Che nessuno può sfuggire a questo che rappresenta il tratto fondamentale della nostra condizione esistenziale così come la conosciamo e sperimentiamo ogni giorno.

    Ma, come funziona questo processo della contemporanea creazione, nel bambino, dei due elementi coscienza e identità?

    Ad un certo punto il bambino comincia a rendersi conto, dopo pochi giorni di vita, che quella serie di suoni prodotti dalle corde vocali dei suoi genitori ha che fare con lui, indica lui stesso.
    Questo rappresenta un passaggio importante perché, per la prima volta, la sua mente, riesce a creare un collegamento fra un’astrazione (una serie di suoni) e una cosa reale (sé stesso).
    Questo rappresenta anche il primo pensiero cosciente, la scoperta di un meccanismo in grado di fargli comprendere cosa sta succedendo nel mondo al di fuori di lui e di renderlo capace di interagire con esso, a proprio esclusivo vantaggio.
    All’inizio l’identificazione non è completa e, per un certo periodo, egli farà riferimento a sé in terza persona (“ Marco ha fame …”) , ma poi imparerà il pronome magico “io”, cioè realizzerà il collegamento fra questo ed il suo nome che ha già collegato a quello che lui è.
    Dal concetto di “io” nascono ben presto i concetti “me e “mio” che, in un modo o nell’altro, rappresentano cose che hanno a che fare con l’io, che sono di pertinenza dell’”io”.
    L’identificazione degli oggetti con il concetto di “mio” rappresenta un ampliamento della coscienza di quello che il bambino sente di rappresentare nel mondo, quindi, quegli oggetti entrano a fare parte del concetto che ha di sé stesso, come se quegli oggetti rappresentassero una propagazione di sé.
    Il “suo” giocattolo, ad esempio, diventa parte di sé stesso, della percezione che ha del proprio “io”.
    E’ per questo che un bambino piange quando gli viene tolto il gioco, perché è come se gli venisse tolta una parte di sé.
    Poi, man mano, crescendo, intervengono altri pensieri che si aggiungono gli uni agli altri, pensieri che si legano fra loro definendo sempre meglio la coscienza di sé.
    Il bambino comincia ad identificarsi con un genere, maschio o femmina (che rappresenta già, se vogliamo, il primo gruppo di riferimento), con le cose che possiede, con il corpo percepito dai sensi, con concetti astratti, come la nazionalità, la religione, ecc. ecc.
    Si identifica anche con i ruoli che viene a rivestire: di bambino, di figlio, di scolaro, di studente, di giovane, ecc.
    Coltiverà ricordi speciali, cose successe solo a lui, che fanno parte e caratterizzano la sua storia, la sua vita, definendo ancora di più il proprio senso del sé.
    Così avanti, anno dopo anno: i suoi amici, la sua ragazza, la sua casa, la sua professione, i suoi figli, le sue scelte, morali, politiche, religiose, filosofiche, ecc. ecc.
    Alla fine eccolo lì, l’uomo maturo, la personalità realizzata, cosciente di sé ed impegnata a difendere la propria posizione nel mondo, all’interno di quel gruppo sociale e psicologico che, ad un certo punto, più o meno consciamente, ha preso come riferimento.

    Questo è quello che succede a livello psicologico, nella vita di ciascuno di noi.
    Ma, ma COME agisce, nel particolare, questo meccanismo mentale che controlla il nostro sviluppo psicologico?
    Per capirlo prendiamo ad esempio una semplice situazione di vita quotidiana esplicativa appunto di come il meccanismo mentale agisce in noi:

    “Un uomo passa davanti ad una vetrina e vede un vestito (o una maglia, o un automobile, o qualsiasi cosa …)
    La percezione sensoriale (visiva) invia , alla sua coscienza, il messaggio dell’esistenza di quel particolare vestito.
    Subito scatta nella mente un meccanismo di comparazione, sulla base del ricordo delle proprie esperienze precedenti e del canone estetico precedentemente elaborato, che porta a giudicare “bello” quel vestito.
    E’ nato l’interesse e l’uomo decide, allora, di approfondire: entra nel negozio, si avvicina al capo d’abbigliamento, prova al tatto la qualità del tessuto, verifica l’esatta sfumatura del colore, osserva la qualità dei dettagli, ecc.
    Da queste percezioni egli ricava nuove informazioni in merito all’oggetto, informazioni che continua a vagliare confrontandole con i ricordi precedenti.
    Dal confronto con le esperienze precedenti giunge ad elaborare un giudizio positivo rispetto ad un proprio canone di bellezza, di corrispondenza rispetto all’immagine che vuol trasmettere agli altri, di corrispondenza ai valori estetici dell’ambiente in cui si riconosce.
    In quel momento scatta, in automatico, un altro meccanismo mentale: l’uomo comincia ad immaginare sé stesso con quel vestito addosso, prefigurandosi, nel contempo, l’effetto che potrà provocare negli altri in termini di consenso, di approvazione.
    Se la risposta è positiva, se arriva a pensare che il far proprio quell’oggetto possa rappresentare un affermazione di sé, una valorizzazione della sua figura nell’ambito che gli interessa, nasce, allora, il desiderio di possedere quell’oggetto e decide allora di doverlo possedere.”

    Cosa succede, a livello mentale, in un contesto così abituale nella nostra vita?

    Poniamo l’attenzione su quel doppio passaggio legato al fattore “tempo” – nel passato (memoria) e nel futuro (immaginazione) – che avviene AUTOMATICAMENTE in quel momento.
    In prima istanza, infatti, si assiste al fatto che le informazioni provenienti dai nostri sensi vengono immediatamente analizzate alla luce del nostro “archivio storico” cioè, della nostra memoria.
    Senza il termine di paragone con le nostre esperienze precedenti (che corrisponde al nostro passato), non sarebbe possibile emettere il benché minimo giudizio di merito.
    La prima volta che un bambino vede una palla saltare, per esempio, la guarda incredulo e stupefatto, ma la seconda volta che la vedrà, non sarà più la stessa cosa, non potrà più essere la stessa cosa, perché riconoscerà quella cosa come “palla”, ne prevederà il comportamento, ne confronterà le caratteristiche fisiche con quella che ha già conosciuto, ecc. .
    Questo vale per tutte le cose e comporta l’immediato attivarsi di quel meccanismo automatico che porta alla classificazione e quindi al giudizio.
    Se io non avessi mai visto una forchetta in vita mia e ne trovassi una nel bagno, probabilmente la userei per pettinarmi , ma, avendo avuto innumerevoli esperienze della forchetta nel corso della mia vita, se solo la vedo la riconosco.
    In questo riconoscimento è presente un’operazione di astrazione e inserimento all’interno di una classificazione teorica e la forchetta da oggetto reale è diventata, nella mia testa, un concetto (che è una astrazione della mente) e così è “vissuta” dalla mente.
    Senza l’esistenza del ricordo, non è possibile nessun confronto e quindi nessun giudizio.
    Successivamente , una volta elaborata l’informazione, cioè,catalogato l’oggetto ed espresso il giudizio di merito, scatta una nuova proiezione temporale, questa volta nel futuro.
    Attraverso la propria capacità di immaginare il futuro, la mente cerca di prevedere quali potrebbero essere le conseguenze di quella informazione, in questo caso nell’acquisto di quell’oggetto, in funzione dell’unico grande tema che le stia veramente a cuore: l’affermazione di quel “sé”, di cui è espressione, nel mondo.
    Da questa doppia proiezione, nel passato e nel futuro, deriva la scelta, si determina l’azione.
    In questa continua oscillazione fra passato e futuro l’uomo perde, e questa è la prima conseguenza negativa, il contatto reale con il presente che rappresenta, invece, l’unico tempo veramente reale.
    All’interno del singolo istante, infatti, passato e futuro, non sono presenti, non esistono.
    Rappresentano un tempo passato, che, in realtà, non è più e un tempo futuro che ancora non è.
    Questo distacco dal momento presente ci proietta in un mondo prodotto dal pensiero, mondo che comunque corrisponde, sempre ed in ogni caso, ad una rappresentazione personale e soggettiva del mondo reale.

    Se ci facciamo caso questo meccanismo, del doppio passaggio temporale ,corrisponde a quello che viene implementato nell’informatica con la creazione dell’”intelligenza artificiale”.
    Partendo dal concetto della cosiddetta intelligenza artificiale, infatti, che consiste, in definitiva, nella capacità artificiale (cioè creata dall’uomo) di ricordare e di elaborare i ricordi immagazzinati, propria di ogni comunissimo computer, cercare di arrivare alla creazione di macchine pensanti, dotate di una propria autonomia , capaci di scegliere, dotate quindi, in qualche modo, di una loro coscienza di sé.
    Di una coscienza auto-costruita, in quanto basata sulla capacità stessa della macchina di imparare dalle proprie stesse esperienze.
    Le macchine attuali, anche quelle più potenti, non sono ancora in grado di competere con il cervello umano, ma si tratta solo di questione di tempo.
    L’uomo, invece, può contare su uno strumento straordinario che è il cervello, capace, dal punto di vista “informatico”, di elaborare i milioni di dati fornitegli dalle varie “periferiche” (occhi, orecchie, naso, bocca, organi di tatto, ecc.) in tempo reale, selezionando il materiale da portare alla coscienza e quello da gestire in “automatico”.
    Anche nel caso di malattie degenerative del cervello come l’Alzheimer, se viste sotto questa ottica “informatica”, la perdita completa dell’archivio dei dati storici, anche se non di quelli relativi al “sistema operativo”, comporta per il malato, comunque, automaticamente, l’azzeramento della capacità della “macchina uomo”, di riconoscere, di relazionarsi, di ricordare i rapporti precedentemente instaurati e, perfino, le implicazioni (emozionali, affettive) connesse.

    Attenzione, però, non è che questo meccanismo mentale interviene solo quando facciamo una scelta o prendiamo una decisione.

    Questo meccanismo mentale interviene e agisce AUTOMATICAMENTE in noi ogni istante della nostra vita.

    Per esempio: per rispondere a qualcuno la nostra mente deve prima interpretare (memoria) il linguaggio e il significato di quanto ci viene detto e deve elaborare una risposta conseguente, prevedendo preliminarmente (futuro) l’effetto che questa elaborazione potrà avere sull’interlocutore.
    Come detto se vedo una forchetta la riconosco (passato) e non mi suscita particolari emozioni avendo considerato che rappresenti di un oggetto innocuo ed inserito nel suo giusto contesto, ma se vedessi una pistola (o un fantasma, o un mostriciattolo verde …) subito il mio sistema entrerebbe in allarme ponendomi nella situazione di massima attenzione e allerta.
    Questo significa, appunto, che questo doppio passaggio mentale indietro e avanti nel tempo è attivo in ogni istante della nostra esistenza, che interviene in maniera automatica e indipendente dalla nostra volontà e che rappresenta per noi qualche cosa di cui siamo nella stragrande maggioranza dei casi inconsapevoli, così come siamo inconsapevoli del nostro battito cardiaco, della nostra digestione ecc. ecc.

    Certo, qualcuno dirà che questo è semplicemente il nostro modo di esistere in questo mondo.
    Sicuramente è così e in pratica non esistono alternative.

    Verrebbe, allora, da chiederci cosa c’è di male in tutto ciò.

    Il problema sta nel fatto che oltre a farci perdere, come detto, il contatto vero con la realtà e a confinarci in un “mondo del pensiero” (e il prestare maggiore attenzione, “allenarci” all’attenzione non ci fa uscire, purtroppo, da questo spirale …) questo meccanismo mentale finisce per creare la nostra COSCIENZA e, attraverso la percezione del TEMPO PSICOLOGICO (che vuol dire percezione del trascorrere del tempo),
    la nostra IDENTIFICAZIONE (cioè la nostra identità).

    Come avviene, tutto ciò, in pratica e dove sta il problema?

    Il problema sta tutto in quella parola, “desiderio”, che abbiamo riportato nell’esposizione della scena del vestito.
    Nel momento in cui l’uomo realizza che la tal informazione, il tale oggetto, la tale idea, la tale azione, risulta organica rispetto all’affermazione di sé nella realtà (COSCIENZA di sé) , infatti, nasce in lui il desiderio di far proprio quell’oggetto, quell’idea, quella proposizione.
    Nasce il desiderio e, con esso, l’aspettativa da quello generata, e, nello stesso istante, anche la paura che la situazione ideale da lui immaginata, da lui agognata, possa non realizzarsi, possa essere messa in pericolo.
    Se, poi, effettivamente, la realizzazione di quella proiezione entra, per qualche motivo in crisi, comincia allora, a livello psicologico la frustrazione, l’insofferenza, l’invidia nei confronti di chi invece è riuscito a realizzarla, e tutto si trasforma in sofferenza, in dolore.
    Non accettando di soffrire, l’uomo reagisce attraverso l’aggressività, la violenza, fisica o psicologica, in difesa delle proprie prerogative nei confronti degli altri.
    Il solco della divisione dagli altri si fa più profondo, il senso di competitività con gli altri sempre più accentuato e la cosa che conterà sempre più, l’unica in grado di ridargli una sensazione di forza e sicurezza, sarà la ricerca dell’affermazione di sé stesso, costi quel che costi.
    L’uomo, risulta solo parzialmente cosciente dell’azione in lui di questi meccanismi che derivano dalla nostra condizione di esseri ego-centrici, di esseri, cioè, al di là di ogni valutazione moralistica, “centrati” su sé stessi, in una parola: individualizzati (cioè dotato di una COSCIENZA DI SE’ come esseri separati dagli altri.
    Alla fine l’uomo è preso dentro quel meccanismo che lo condanna ad una esistenza di competizione continua, di stress, di sofferenza, di insoddisfazione, di infelicità, senza apparente via d’uscita.

    Andiamo ad analizzare ancora meglio cosa avviene.

    Alla paura, chiamiamola così, “biologica”, propria della nostra condizione di esseri vulnerabili inseriti in un ambiente ostile e dalle risorse limitate, si aggiunge la paura psicologica (che il desiderio non si realizzi, di fallire …) che nasce dalla stessa attività della nostra mente, rendendo la paura, un attributo ineliminabile della nostra condizione ed il bisogno di sicurezza, assoluto.
    Dal doppio movimento della mente nel passato e nel futuro nasce la percezione del trascorrere del tempo, dalla percezione del trascorrere del tempo nasce la capacità di fare dei progetti, la capacità di fare dei progetti si accompagna al DESIDERIO che questi si realizzino, con il desiderio nasce contemporaneamente la PAURA che questo non avvenga, con la paura nasce un assoluto BISOGNO DI SICUREZZA psicologico.

    Ora, nel corso della storia dell’umanità, quale è sempre stato, per l’uomo, il modo per recuperare almeno l’illusione di un minimo di sicurezza?
    E’ stato quello di trovare rifugio all’interno di un branco, di una tribù, di un gruppo, di una corporazione, di una nazionalità, di una classe, di un partito, ecc. ecc..
    Dalla paura nasce il bisogno di sicurezza e da questo nasce, cioè, il bisogno di aderire ad un modello condiviso, di adeguare il proprio modello , la propria identificazione quella di un gruppo secondo un meccanismo, chiamiamolo così, di tipo conformistico.
    Cerca, cioè, un rifugio dalle proprie paure, uniformandosi al conformismo di un gruppo.
    Persegue, cioè, l’affermazione di sé stesso all’interno di un gruppo per garantirsi quella sicurezza psicologica di cui ha bisogno.
    Spinto dal bisogno di sicurezza, sì identifica a tal punto, da arrivare a considerare “normale” e “naturale” un certo ordine di pensiero, lo identifica come “suo”, dimenticandosi di averlo, consapevolmente o meno non importa, a suo tempo, fra tanti, scelto, divenendone così, da quel momento, un promotore attivo e convinto .
    Generalmente una volta si indicava come “conformismo” quello proprio della classe dominante di una società, ma se si guardano le cose di questo mondo con un po’ di distacco, si potrà riconoscere un conformismo di destra ed uno di sinistra, quello del progressista e quello del reazionario, il conformismo umanitaristico e quello religioso, quello mistico e quello del mondo scientifico, quello dei giovani e degli adulti e, ancora, se non ci facciamo imbrogliare dai preconcetti più in voga, quello dei liberi pensatori, degli ecologisti, dei pacifisti, dei cittadini del mondo, ecc. ecc.
    Così avanti per quanti sono i gruppi umani o, ancora meglio, quanti sono i tipi umani, perché anche la cristallizzazione di una sola costruzione mentale individuale rappresenta, in fin dei conti, una forma di conformismo.
    Oggi si può dire che esiste una gamma sempre vasta di modelli conformisti.
    Si, perché oggi, il venir meno della forza delle varie autorità (religioni, nazionalismi, idealismi, valori sociali) e con la grande circolazione di informazioni a cui si assiste oggigiorno, ognuno può pescare, come in un supermercato, i valori, i modi d’essere che più gli aggradano, creando così un proprio personalissimo modello, una propria personalissima identificazione che, però, dovrà comunque far per forza riferimento ad un qualche gruppo.
    Il fatto che l’adesione a questo gruppo possa prefigurarsi anche solo a livello psicologico, non inficia minimamente il meccanismo dell’identificazione.
    La variabilità delle identificazioni e la possibilità di un’adesione solo psicologica ad un certo gruppo, non rappresentano, infatti, un sostanziale cambiamento perché, come è intuibile, la differenza vera non sta fra una identificazione o l’altra, ma, semmai, fra un’identificazione e nessuna identificazione e il fatto di essere noi stessi i creatori del nostro personale mix non cambia la sostanza del problema.

    Identificazione, dunque, come risultato di un meccanismo automatico, vera espressione della nostra attuale condizione esistenziale.
    Identificazione che corrisponde al “modello” con cui ci proponiamo al mondo.
    Che determina il nostro modo d’essere, il nostro sentire, l’immagine che abbiamo di noi stessi e che, in questo senso, ci caratterizza per quello che siamo.
    Risulta sbagliato, quindi, affermare che “siamo rinchiusi dentro una identificazione”.
    Se solo poniamo l’attenzione a come, quel processo che porta alla identificazione, abbia operato e continui, in ogni istante, ad operare in noi, potremmo arrivare a riconoscere che noi rappresentiamo, piuttosto, il prodotto di quel meccanismo, noi siamo la nostra identificazione.
    Noi non abbiamo una coscienza, non siamo chiusi in un’identificazione, noi SIAMO coscienza e identificazione laddove questa ultima corrisponde ad un continuo processo in atto di DEFINIZIONE DI SE’.

    Definita in qualche modo la nostra condizione cominciamo ad interrogarci se e come sia possibile uscire dalla propria identificazione, dal proprio modello.
    Ci accorgeremo che non è per niente facile, anche perché noi siamo molto bravi ad imbrogliare noi stessi.

    Prendiamo, per esempio, quella che, nella visione comune, rappresenta una delle prerogative del cosiddetto conformista (cioè colui che, in generale, risulta perfettamente centrato nella propria identificazione), cioè, quella di mantenere, sempre in ogni caso, ben fissa la propria opinione (o la propria fede) .

    Si tende, per contrasto, a definire come “anticonformistica” la capacità, invece, di cambiare opinione, di essere aperti nei giudizi, di essere in qualche modo in “movimento”.

    Ma, in riferimento a quanto sopra espresso, questa capacità di “cambiare opinione”, di modificare la propria visione del mondo da parte di un individuo, rappresenta veramente un valore assoluto?

    Verrebbe, naturalmente, da dire di si, perché tutto sembra preferibile alla cristallizzazione, all’ottusa chiusura in sé stessi derivata dal rischio di perdere una propria sicurezza derivata dall’adesione ad certo un modello condiviso.
    Perché, è abbastanza intuibile, dove c’è cristallizzazione, là cessa la possibilità di ogni cambiamento, reale o immaginario che sia.
    Ma, cosa significa, alla luce di quanto sopra esposto, “cambiare opinione”?
    Cosa significa, avere la capacità di modificare la propria visone del mondo?
    Forse significa, semplicemente: avere la capacità di adeguare in tempo reale il proprio sistema, la propria identificazione.
    Avere la capacità di intervenire, cioè, “aggiustando” man mano il sistema rispetto a delle nuove esigenze.
    Il mio sistema di pensiero, l’identificazione che ne deriva, sono entrati, per una ragione o per l’altra in crisi (e capita regolarmente nella vita che vengano messi in crisi …) , ed io procedo ad una ricalibratura del mio sistema di pensiero, per adeguarlo ad un nuovo modello, un modello che mi offra ancora maggiori possibilità di affermazione per me stesso.

    E’ chiaro, però, che così facendo il meccanismo (confronto con il passato/ proiezione nel futuro) che è quello che ha creato e continua a mantenere il mio sistema di pensiero, la mia identificazione (cioè la mia prigione mentale), non viene toccato.

    Il meccanismo che crea l’identificazione, che crea il modello di vita non viene toccato.

    Il sistema di pensiero, il modello di vita risulteranno, leggermente variati, superficialmente variati nel contenuto, ma il meccanismo non smetterà un attimo il suo incessante lavoro, mentre l’identificazione assoluta con il modello, che rappresenta la vera limitazione, potrà risultare, almeno sul momento, almeno per un certo tempo, addirittura rafforzata dal cambiamento avvenuto, perché l’individuo risulta più centrato rispetto al modello, più in sintonia con sé stesso.

    La vera differenza, il vero salto di condizione, però, come detto, non sta fra essere chiusi in una o quell’altra identificazione, magari considerata “migliore”, più “profonda” , ma fra l’essere chiusi in una qualsiasi identificazione e essere liberi da OGNI identificazione.

    Ecco allora che, la capacità di “cambiare opinione”, alla luce di queste considerazioni, non assume più un valore assoluto, mentre il fatto stesso di considerare questa capacità come qualcosa di “positivo”, come qualcosa di “corretto” potrebbe rappresentare, invece, paradossalmente, un fattore ulteriormente cristallizzante.

    Perché?

    Perché significherebbe che dentro l’ultimo “aggiustamento” del mio sistema di pensiero, nel mio ultimo modello, ho introdotto il concetto che è “positivo” non rimanere incollati alle proprie convinzioni, che è giusto metterle in discussione.
    Cioè, ho provveduto a “migliorare” il mio modello.
    Il che, se è vero che il modello rappresenta anche la mia prigione, l’averlo migliorato, introducendo questo concetto che, solo apparentemente, intacca l’essenza del modello, corrisponde, ad aver reso il modello stesso più accettabile, più “affine” all’immagine di me che ho deciso di offrire al mondo.
    Rendendolo, nel contempo, meno riconoscibile in quanto prigione mentale e, quindi, molto più pericoloso rispetto alla possibilità teorica di un reale cambiamento della mia condizione esistenziale.

    Possiamo comprendere ancora meglio il meccanismo per cui la valorizzazione di un concetto, in questo caso la capacità di cambiare opinione, si può trasformare in elemento di conservazione del sistema se portiamo ad esempio un tema specifico come quello della violenza e della non-violenza.
    Io ho un problema: sono violento.
    Ad un certo punto me ne rendo conto (il che rappresenta, per il sistema, l’informazione), automaticamente sottopongo questa informazione al vaglio dell’archivio del mio passato (memoria) alla luce del sistema di pensiero in cui sono identificato e arrivo ad esprimere un giudizio negativo su questo dato di fatto (il mio ambito di riferimento lo considera negativo …).
    Cosa fa allora la mente, lo strumento di cui siamo dotati, per non essere costretta a mettere in discussione l’intero sistema?
    Elabora il concetto di “non-violenza”.
    Sempre automaticamente, cioè, proietta nel futuro il modello di un me stesso “non-violento” e poiché il risultato risulta positivo (cioè rappresenta un modo ulteriore di affermare me stesso nell’ambiente in cui voglio vivere), adatta, di conseguenza, la sua condotta di vita a questo nuovo valore.
    Solo che il problema non è risolto, la causa del mio essere violento (cioè, in definitiva, il fatto di rappresentare un essere centrato su sé stesso e teso a difendere le proprie prerogative a discapito degli altri) non è eliminata, ma solo rimossa, nascosta sotto il tappeto.
    Si può sintetizzare il tutto dicendo che la violenza è un “fatto”, la “non-violenza” è un “non-fatto”.
    Mentre su un fatto posso, in qualche modo, teoricamente, lavorarci su, su un non-fatto non posso farci niente, perché non esiste: è solo una costruzione della mia mente, un sotterfugio che mi consente di non affrontare le mie più profonde contraddizioni.

    Così, ancora , sempre secondo questa logica, se, ad un certo punto, per esempio, mi rendessi conto di essere prigioniero delle mie stesse convinzioni, subito elaborerei il concetto di “libertà di pensiero” o “libertà di coscienza” che, apparentemente, sembrano possedere un valore assoluto, indiscutibile (come la non-violenza).
    In realtà, essi rappresentano dei “non-fatti”, delle invenzioni della mente per sviarmi da fatto reale, per me insopportabile, che è vero che io sono prigioniero delle mie convinzioni, che io rappresento, in fin dei conti, l’espressione stessa delle mie convinzioni, qualsiasi esse siano, comprese anche quelle che, apparentemente, contraddicono queste conclusioni.
    Anche quelle che, proclamando come obiettivo l’assoluta libertà di opinione o di coscienza, sottintendono con ciò la possibilità di poter scegliere la propria opinione o la propria fede, semplicemente sostituendo così facendo, le vecchie convinzioni con delle nuove, le vecchie con le nuove prigioni mentali.
    Laddove, invece, come è intuibile alla luce di quanto detto, il vero mutamento non può nascere, invece, che dalla assoluta libertà da ogni opinione, da ogni fede.

    Ne deriva che il “cambiare” il modello, il cambiare “identificazione”, passare da una identificazione all’altra apparentemente più “ampia e profonda”, apparentemente più “santa” o “moralmente superiore”, rappresenta nei fatti solo un adeguamento superficiale del sistema che noi siamo e non un vero e proprio cambiamento.
    Un adeguamento superficiale e non l’andare oltre alla propria natura, alla propria condizione esistenziale.

    Per comprendere ancora meglio la condizione in cui ci dibattiamo bisogna ancora puntare l’attenzione sulla COSTRUZIONE MENTALE che sta alla base della nostra “identificazione”, che “determina” il “modello”.

    Questa “costruzione mentale” rappresenta l’”architettura”, il “sistema di pensiero” che abbiamo elaborato nel corso della nostra vita attraverso una progressione continua di definizioni, di scelte di campo, di distinzioni, e classificazioni, promozioni e condanne e ad essa corrisponde il modello di comportamento e di vita che stiamo interpretando.

    Per costruire la nostra “costruzione mentale”, il nostro “sistema di pensiero, però, per arrivare ad insieme organico e razionale, abbiamo dovuto basarli su dei postulati di partenza, su dei pre-concetti che hanno rappresentato quei punti fissi su cui il pensiero deve per forza far leva per poter svolgere un ragionamento coerente, senza perdersi in mille variabili indefinite.

    Cosa sono questi pre-concetti?

    Sono quei postulati, non dimostrati e, soprattutto, non dimostrabili, da cui ad un certo punto siamo dovuti partire per definire il nostro sistema pensiero, che, e questo è il problema, alla fine siamo così abituati a considerare come acquisiti, a cui abbiamo imparato a credere, su cui facciamo leva per poterci esprimere, che ci dimentichiamo di averli formulati noi stessi, di averli noi stessi arbitrariamente fissati.

    Basta , per esempio, pensare al semplice fatto di cosa può voler dire credere o non credere a Dio, in termini di valutazione della figura dell’uomo, del senso della vita, della realtà, della morale, ecc. ecc., eppure, come si sa, l’esistenza di Dio non può essere provata in maniera certa e indiscutibile.

    Ad un certo punto, però, nel corso della nostra vita, abbiamo, “deciso” che credevamo in Dio .
    In questo caso specifico si tende a dare per scontato, a non mettere in discussione:
    che siamo esseri speciali, destinati a riappropriarci, in un modo o nell’altro del nostro status divino,
    e che, poiché risulta evidente che in questo momento non siamo all’altezza di fare quel salto (e comunque non sta accadendo ..) il tutto avverrà attraverso una certa evoluzione,a seguito di un certo sviluppo, nel corso del tempo.

    Che noi si sia, nonostante le apparenze, degli esseri speciali e che il tutto si risolva attraverso una evoluzione progressiva, però, rappresentano, ancora una volta, delle idee e quindi, comunque e in ogni caso, due prodotti (cioè, invenzioni) della mente.

    Si tratta,nel caso dell’idea dell’evoluzione, semplicemente, della trasposizione del concetto di evoluzione biologica, che sperimentiamo ogni giorno nella vita quotidiana (la pianta diventa albero, il cucciolo diventa adulto, ecc.), a livello psicologico o “spirituale”, ambiti in cui, però, non è affatto detto che funzioni alla stessa maniera.

    Non è affatto detto che un’evoluzione (posto che ci sia un’evoluzione) debba o possa avvenire attraverso un processo progressivo e non, per ipotesi, attraverso mutamenti repentini e sostanziali, attraverso veri e propri salti quantici in grado di trasformare coscienza e consapevolezza.

    Ecco allora che pensare di rappresentare degli esseri speciali e di poter realizzare il nostro “destino” di esseri speciali attraverso una evoluzione spirituale, rappresentano due pre-concetti di quel particolare sistema di pensiero, e questo, al di là della attendibilità o meno di tali affermazioni (che, del resto, risulterebbe essere valutata, a sua volta, da altro sistema di pensiero, alla luce dei suoi postulati di base …).

    E questo anche quando queste cose vengono affermate da chi sa chi ( maestri, profeti, inviati, santi, ecc. ), perché comunque e sempre espressioni di un certo particolare sistema di pensiero, di una certa particolare costruzione mentale, fondati questi sempre su loro particolari preconcetti.

    Da momento in cui abbiamo scelto di credere nell’esistenza di un Dio, il nostro sistema di pensiero ha cominciato valutare noi stessi, il mondo,la vita, tutto quanto, alla luce di questo assunto che, però, rimane un preconcetto, in quanto postulato non dimostrato.

    Questo naturalmente vale anche per le idee politiche, economiche, culturali, sociali ecc. ecc.
    Ad un certo punto abbiamo “deciso” da che parte stare, che parte aveva “ragione” e su quelle scelte fondamentali abbiamo basato il nostro modo di esprimerci nel mondo.
    Su quelle scelte, su quei preconcetti, abbiamo basato anche tutte le nostre eleganti elaborazioni mentali fino a giungere, per chi non si accontenta di andare semplicemente a ruota degli altri, ad un nostro personalissimo mix che finiamo per considerare, naturalmente, come assolutamente personale e originale.
    In cui ci identifichiamo al cento per cento considerandolo una nostra, sofferta, produzione, che rappresenta, in fondo, in qualche modo, la nostra stessa vita.
    Ma ci dimentichiamo sempre che quella produzione, quel sistema di pensiero poggia sul nulla, poggia su delle fondazioni, niente affatto solide e niente affatto originali, punti di partenza a cui noi abbiamo dato una arbitraria validità.
    Poggia su dei pre-concetti che, però, se ci ponessimo la domanda, non riconosceremmo come tali.

    Perché non li riconosciamo come preconcetti?

    Perché ci appaiono scontati, naturali: così è e basta.

    Poiché il meccanismo stesso attraverso il quale siamo arrivati a fissare quei principi, a fare quelle scelte ci appare naturale, tendiamo a dare a quei principi, a quelle scelte, un valore assoluto, oggettivo .
    In realtà, poiché, in fondo, non siamo che figli delle nostre esperienze, non possiamo fare a meno di considerare quello che alla nostra esperienza appare normale, quello che si ripete sempre uguale a sé stesso, come una manifestazione naturale, il che si prefigura, a sua volta, come un preconcetto.

    Tutti i nostri discorsi, tutte le nostre elaborazioni, perciò, nascono da questi presupposti che diamo per scontati cosicché quando poi, per esempio, ci andiamo a confrontare con i sistemi di pensiero degli altri, finiamo per scontrarci e dividerci o al massimo, per tollerarci (il che rappresenta una bruttissima cosa …), senza nessuna possibilità di comprenderci realmente, perché non teniamo mai conto del fatto che partiamo da punti di partenza (preconcetti) diversi.

    Il riconoscere che partiamo ognuno da postulati (arbitrariamente fissati) diversi, comporterebbe riconoscere, infatti, che ogni sistema di pensiero, ogni costruzione mentale, risulta tendenzialmente valida e coerente solo rispetto ai propri presupposti di base.
    E riconoscere, nello stesso tempo, che tutti quanti i sistemi di pensiero, senza eccezioni, risultano arbitrari rispetto ad una presunto connotato di oggettività, perché ognuno di essi risulta condizionato, da quei presupposti di base arbitrariamente fissati.

    Ancora: due pre-concetti importanti perché carichi per noi di conseguenze e implicazioni, sono rappresentati, poi, dalle seguenti affermazioni:
    noi esistiamo
    la realtà esiste.

    Siccome non abbiamo, apparentemente, alternative, finiamo, cioè, per considerare le nostre percezioni (e quindi le informazioni che ci danno) come le fonti uniche e sufficienti per valutare le nostre esperienze.

    Noi partiamo, cioè, dal presupposto, non dimostrato e, tendenzialmente indimostrabile, che quello che sperimentiamo, non può che essere “vero”.

    Noi partiamo dal presupposto che le nostre percezioni, le nostre sensazioni sono reali e che sono in grado di fornirci una visione oggettiva della realtà.
    Da questa asserzione, che accettiamo dandola per scontata, deriva la convinzione di poter comprendere e, conseguentemente, dominare la realtà, di potere definire e, conseguentemente, conoscere e dirigere noi stessi.

    Tutto questo a maggior ragione quando si tratta di esperienze che derivano dal cosiddetto “mondo sottile”.

    Fa parte dell’esperienza umana in generale (se non addirittura personale di ciascuno di noi) l’esperienza di un mondo parallelo a quello materiale dato dalla nostra quotidianità.
    Un mondo parallelo più sottile, ma a cui in qualche modo partecipiamo anche noi attraverso la nostra parte inconscia.
    Un mondo da cui derivano le esperienze straordinarie che ci è capitato, nel corso della nostra vita di avere: sensazioni, intuizioni, capacità straordinarie che abbiamo sperimentato magari per un attimo, ma che si sono impresse indelebilmente nella nostra memoria.

    Di questo mondo, straordinario rispetto a quello ordinario che sperimentiamo ogni giorno, sappiamo poco o niente ponendosi esso al di là della nostra capacità percettiva.
    Eppure, pur sapendone poco o niente, proprio per l’eccezionalità delle sue manifestazioni, il mondo sottile è stato l’oggetto di innumerevoli elaborazioni mentali, di innumerevoli sforzi della mente per inquadrarlo in una o l’altra visione consolatoria.

    Grandi visioni filosofiche e, soprattutto, religiose, grandi cosmologie sono state create dalla mente per fornire a noi uomini (noi pulci …) un destino superiore, un’ipotesi di affrancamento dalla nostra condizione esistenziale, una possibilità di salvezza e innalzamento ad un livello “superiore”.

    Grandi volo della mente tutti basati sul preconcetto che
    “ tutto ciò che non è ordinario, tutto ciò che non è “normale”, tutto ciò che è straordinario deve avere a che fare con il “divino” “.

    Non conosciamo niente di quel mondo però gli attribuiamo d’ufficio e in maniera arbitraria e autoreferenziale una valenza “superiore” rispetto al mondo materiale, dimenticando che l’ipotesi più probabile è che esso rappresenti, invece, solo una parte dell’insieme.

    Potrebbe essere, invece, che il nostro universo si manifesti a due livelli diversi, uno materiale “grossolano” e uno materiale “sottile”, e che sia solo la limitatezza della nostra capacità di percezione a far apparire straordinario quella parte di universo che invece non lo è.
    La fisica, per esempio, distingue fra “materia” e “materia oscura”, laddove la prima (quella che siamo in grado di percepire) varrebbe solo il 10% del totale delle due.
    Della materia oscura, così come del mondo sottile, sappiamo poco o niente se non che ha leggi proprie capaci di andare oltre quelle fisiche e nulla vieta di pensare che un giorno si possa arrivare a riconoscere ai due termini – materia oscura e mondo sottile – una corrispondenza di fondo, una comune appartenenza ad un ordine di manifestazione.

    Per il momento, però, a tutto ciò di “straordinario” si manifesta nella vita diamo, pregiudizialmente, un valore assoluto, una valenza “superiore”, dimenticando che tutto nasce da un nostro preconcetto- indimostrato e indimostrabile – che abbiamo posto alla base del nostro sistema di pensiero.

    Però, se è difficile mettere in discussione quello che pensiamo, diventa quasi impossibile mettere in discussione quello che “sentiamo”, quello che “crediamo”.
    Se è difficile riconoscere il modello in cui siamo identificati, diventa quasi impossibile riconoscere come nuovo modello il “super modello” che ci viene proposto da questa o quella religione, gruppo religioso o “maestro”, da chiunque, insomma, che, per accreditare sé stesso e il proprio messaggio, per indicare un modello di vita , si rifaccia alle “conoscenze” provenienti da quel misterioso e affascinate mondo sottile.

    Il preconcetto che abbiamo adottato ci fa ritenere che tutto quello che arriva da quell’ambito possa avere una caratteristica valenza di assoluto, ma basterebbe, per esempio, prendere in considerazione il semplice caso delle “visioni” laddove ad un cristiano appare la Madonna, ad un islamico appare il Profeta, ad un buddista appare il Maestro, per poter arrivare a pensare – delle visioni così come di tutte le altre manifestazioni straordinarie – che si potrebbe trattare solo di proiezioni personali di quel nostro inconscio di cui poco conosciamo e che, soprattutto, non controlliamo.

    In realtà risulta chiaro che, soprattutto in questo campo, “non possiamo sapere” e poiché non possiamo sapere, ecco allora che chi ci dice di sapere, chi afferma Verità Assolute, in realtà ci sta vendendo, generalmente in buona fede, la propria particolare e soggettiva visione delle cose.

    Ci sta vendendo in buona fede e con spirito di generosità e compassione la sua stessa illusione.

    Pensiamoci: dietro ad ogni pensiero, ad ogni parola c’è sempre un “io”, un “centro” che li ha formulati e questo toglie valore ad ogni pensiero, ad ogni parola detta o scritta da chicchessia.

    Questa relativismo del pensiero fa sì che ogni volta che, per esempio, all’interno di un discorso, io pronuncio una certa affermazione questa rappresenta il mio contingente punto di vista, cioè il punto di vista che corrisponde al mio sistema di pensiero di quel particolare momento, visto che, il mio sistema di pensiero, così come quello di tutti, risulta, come è inevitabile nella vita, in fase di continua elaborazione.
    Per cui quella stessa elaborazione in atto potrebbe portarmi,clamorosamente, a rivedere ciò che fino a ieri affermavo con passione, a mettere in discussione quello che fino ad un minuto fa avrei difeso a spada tratta.

    Ma che problema c’è?

    Si tratta solo di una costruzione mentale, di una arbitraria costruzione mentale!
    È questa consapevolezza che deve prevalere in ogni istante: che si tratta solo di una costruzione della mente, di un gioco della mente.
    Forse è proprio questa consapevolezza che potrebbe rivelarsi fondamentale per il nostro modo d’essere,
    perché relativizza tutto,
    perché mi permette di non identificarmi completamente con il mio stesso sistema di pensiero,
    perché mi permette, di poter trattare tutto a livello teorico, come pura possibilità
    perché, soprattutto, mi lascia la possibilità di astenermi dal prendere posizione.

    E, forse, ed è qui il punto, potrebbe risultare importante non “prendere posizione”, anzi forse potrebbe risultare addirittura determinante..

    Potrebbe risultare determinante per mettere in crisi, in qualche modo, quel meccanismo che agisce in noi sotto forma di automatismo e che, creando il nostro particolare sistema di pensiero, in qualche misura, ci determina, determinando il nostro modo d’essere.
    Determinando, quindi, nello stesso tempo, l’ambito mentale in cui siamo rinchiusi.

    Determinando, cioè, i nostri confini mentali e il filtro attraverso il quale ci poniamo e ci rapportiamo col mondo.

    La chiave per andare oltre a noi stessi, per trascendere la nostra condizione esistenziale potrebbe allora consistere nel mettere in crisi questo meccanismo che ci determina, mettere in crisi quel meccanismo di tipo affermativo che nasce dal bisogno di “definirci”, arrivando a far collassare il “sistema” che siamo, per andare a scoprire cosa siamo realmente.
    Comprendendo profondamente, nella propria carne e non solo a livello intellettuale, che non è determinante quello che pensiamo o che crediamo, ma quanto quello che pensiamo e che crediamo ci coinvolge, quanto, in quello che pensiamo e crediamo, ci identifichiamo.

    Alla luce di questa mia visione generale delle cose, con forse, maggiori possibilità di far comprendere ora – dopo questa sua illustrazione – il mio particolare punto di vista, vorrei, a questo punto, azzardare le risposte agli interventi apparsi sul blog.

    Risposte agli amici del Per Ankh:

    Oltre a quelle due ipotesi esposte nel vostro intervento ne esiste una terza: le pulci non hanno nessuna possibilità di comprendere realmente la situazione finché rimangono chiuse nella loro identificazione assoluta con il loro sentirsi pulci, ma se per caso riuscissero a mettere in crisi il meccanismo mentale che le tiene prigioniere nell’idea di essere pulci, allora forse potrebbero uscire dall’illusione e ritrovarsi a sperimentare la propria reale natura.
    Questo significa che per uscire dall’illusione data dalla realtà virtuale di Matrix (quella del film), per prima cosa la pulce deve cominciare a mettere in discussione la realtà di Matrix e, poi, soprattutto,che cominci a mettere in discussione l’idea stessa di sé dentro Matrix, deve arrivare a rinunciare al “personaggio” che è dentro Matrix, deve arrivare a rinunciare a sé stessa.
    E’ solo questo- e non il trovare nuovi modi di essere dentro Matrix, seguendo un qualche modello proprio o di qualche altro – che la può portare, alla fine, a conoscere la sua vera natura.

    Qualcuno c’è già riuscito ad uscire da Matrix?

    Sinceramente non credo ( = non lo ritengo possibile) perché, come scritto all’inizio di questo intervento, noi tutti esseri umani risultiamo collegati ad un qualche livello fra di noi e se un singolo fosse riuscito ad uscire da sé stesso, penso che questa sarebbe diventata una capacità comune e automatica per tutti gli esseri umani.

    Come si fa a riconoscere un maestro, una guida?

    All’interno di questa mia particolare visione delle cose, nel momento in cui riconosco un altro essere umano come maestro, in realtà sto facendo proprio il “modello” che egli rappresenta, che egli proclama.
    L’adozione in genere di un “modello” però significa trovare al personaggio che siamo in Matrix un modo di continuare ad essere, ad esistere in Matrix (anche se a parole – che non valgono niente – proclamiamo/ crediamo il contrario).
    Questo non toglie che rimanga importante e necessario continuare a confrontare il proprio con tutti gli altri sistemi di pensiero, non fosse altro, riconoscendo la relatività di ogni sistema di pensiero, per relativizzare il proprio e non risultarne schiavi.

    All’interno di questa logica (particolare) coloro fra i “maestri”che tendenzialmente mettono in discussione le cose, sono preferibili a quelli che affermano Verità assolute.
    Ma, quelli che mettono in discussione le cose saranno i primi a non proclamarsi maestri.

    Risposta per Simone:

    Una di quelle massime zen a cui potresti far riferimento recita:
    “Non cercare la Verità, smetti solo di nutrire opinioni”
    Si potrebbe anche parafrasare, con riferimento ai “maestri”, modificandola in:
    “Non cercare la Verità, smetti solo di nutrirti delle opinioni di altri”.
    Naturalmente questa affermazione corrisponde al mio particolare sistema di pensiero e al preconcetto, su cui questo si basa, che ogni essere umano, nessuno escluso, risulta ed è risultato rinchiuso in una propria prigione mentale e che non possa, per questo, che produrre pensieri parziali e soggettivi e non verità assolute..
    Cambiando l’assunto di partenza, il preconcetto, la valutazione naturalmente cambia e poiché né l’uno né l’altro dei preconcetti può essere veramente dimostrato, le due tesi si equivalgono.
    In realtà, per come siamo fatti, noi esseri umani comuni non possiamo comunque fare a meno di farci delle opinioni, l’importante è, in ogni caso, che non ci attacchiamo troppo ad esse, che non ci identifichiamo completamente in loro , che continuiamo a riconoscierle come nostre creazioni.
    Che rappresentino degli strumenti da utilizzare, non che siano le nostre padrone.
    Per il resto, anche queste affermazioni che ho fatto e che vado facendo rappresentano un’opinione che ha il valore che ha, quindi è giusto che ognuno faccia quello che si sente di fare, viva come si sente di vivere.
    Possiamo solo sperare che ci sia un’Intelligenza dietro le cose della vita e che noi volenti o nolenti si sia ineluttabilmente indirizzati a fare i conti con noi stessi.

    Un grande abbraccio a tutti.

    Roberto

  7. L’ipotesi per cui se un individuo si fosse già liberato (uscito da Matrix) tutti noi altri ci saremmo automaticamente liberati mi sembra sinceramente un po’ messianica come visione, però come affermi anche tu, un’opinione vale l’altra.

    Personalmente considero più plausibile l’altra ipotesi, inoltre la trovo più stimolante e mi permette di essere più aperto verso altri “modelli di pensiero” di vedute spesso più ampie delle mie, che ho avuto modo di toccare con mano. Quindi, se una parte dei cartelli indicatori si sono rivelati corretti, perché dovrei escludere che anche i successivi non possano portare alla meta di cui parlano?

    Le tue riflessioni sulle dinamiche di sviluppo interiore seguono una prospettiva psicologica. Le scienze psicologiche spiegano molto bene la nascita e il funzionamento dei processi di pensiero ma sono ancora al buio per ciò che riguarda la realtà della coscienza. Conoscere la macchina alla perfezione non dice nulla su chi la guida, anche se può aiutarlo a non identificarsi con la sua vettura.

    Credo che sia questo il motivo per cui certe tradizioni contemplano al loro interno sia insegnamenti di carattere psicologico simili alle tue, sia insegnamenti di carattere mistico, non comprensibili con la mente, ma che in qualche modo stimolano a spingerci oltre con altri strumenti.

    Il tuo pensiero segue dunque un buon filone logico e razionale ma non contempla altri aspetti esistenziali a mio avviso importanti che non potranno mai essere mentalizzati ma solo sperimentati. Se prendi due piccioni e li leghi insieme per le zampe, è certamente vero che insieme avranno quattro ali ma non riuscirai mai a farli volare.

  8. Caro Roberto,

    certo che noi siamo meccanici, non lo possiamo mettere in dubbio. Leggiamoci Gurjieff due volte al giorno prima dei pasti e non potremo che vederci in uno specchio ad ogni singola parola.
    Il fatto che esistano o siano esistite persone che hanno o hanno avuto una visione differente e più ampia della tua e della mia, tuttavia, non significa assumere di dover aderire ad una visione fideistica. Se può servire uno stimolo, un passaggio, una singola parola a me, in questo istante, in questo sistema di riferimento, che mi dia uno scossone e che mi confermi che come al solito non ho capito niente e che sono un guazzabuglio di idee molto più limitate, limitanti e fisse di quanto io non ammetta a me stessa, perchè non approfittarne? Certo che dobbiamo fare i conti con noi stessi, ci mancherebbe altro. Ma dal tuo intervento non riesco a leggere soluzioni alternative al chiudersi in uno sgabuzzino perchè tanto siamo tutti messi allo stesso modo e perchè nessuno ha mai cacciato la testa fuori da Matrix, e non mi sembra una valida soluzione. O almeno, a me non risuona.

    Tornando all’argomento dell’articolo, le parole di chi mi ha preceduto possono avere la funzione di mettere in crisi l’ “identificazione assoluta con il mio sentirsi pulce” e magari “mettere in crisi il meccanismo mentale che mi tiene prigioniera nell’idea di essere pulce”. Speriamo almeno.
    Alla fine dei conti ciò che possiamo fare è sperimentare nuovi sentieri e vedere dove ci portano, o no? Non attacchiamoci alle opinioni, sono d’accordo, ma almeno quelle che ci paiono sensate sperimentiamole. In molti casi non siamo nemmeno in grado di allacciarci le scarpe e già abbiamo paura di identificarci con chi mette e toglie scarponi tutto il giorno.

    Chiedo scusa anticipatamente se ho dato per scontato cose che tu hai già scritto, purtroppo o prendo degli appunti quando leggo un intervento così lungo oppure rischio di dimenticare alcune opinioni in proposito.

    Saluti,
    Silvia

  9. L’analisi di Roberto sullo sviluppo interiore è ben condotta ma in effetti riguarda prettamente la nostra cultura, la nostra civiltà, la nostra forma mentis, e non sarebbe corretto generalizzarla all’Essere Umano.

    Ci sono molti studi e osservazioni, antropologiche e non, che mettono in risalto il fatto che per altre culture non sempre le cose andavano o vanno in questo modo. Basti pensare ai pellerossa o agli aborigeni, dove la percezione di esistere non cresceva in relazione al concetto di individualità e possesso (ad esempio, ancora oggi i discendenti degli eschimesi non hanno un termine per dire “mio” o “tuo”, e la cosa gli provoca non pochi problemi di interazione con noi occidentali…). Per culture di questo tipo, una razionalità comparativa ed una mentalità egocentrica come quelle delineate da Roberto, erano considerate vere e proprie eccezioni devianti, patologiche, e non la norma.
    Osservazioni molto interessanti in proposito sono stati condotti da Bateson.

    Sempre a tal riguardo, uno dei più importanti antropologi contemporanei, Marshall Sahlins, ha scritto il bellissimo – e scomodo – libro “Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana” dove chiede letteralmente scusa all’umanità come portavoce del mondo scientifico per non aver mai considerato altre modalità di visione e di approccio alla vita come quelle di molte culture antiche o attualmente in via di estinzione, oggettivamente molto più evolute della nostra (non dal punto di vista tecnologico ovviamente), e passo a passo ci fa vedere come.

    Non si tratta ovviamente di belle teorie e belle parole, ma di confrontarci e toccare realmente con mano che oltre ad una modalità esistenziale meccanica c’è anche spazio per qualcosa di diverso, di non condizionato, e che pare che questa possibilità sia già insita dentro l’essere umano, ma deve essere riscoperta e non tutti ne hanno voglia o ne sentono la necessità.
    Ad ogni modo, non possiamo fare finta di niente.

  10. Perdonatemi se sarò un po’ spigolosa, ma mi chiedo: se una pulce è convinta che non è possibile ampliare la sua visione della vita, come reagirebbe se incontrasse un’altra pulce che gli dice che in realtà si trovano sopra un cane, che ha un padrone, e via di seguito?
    Probabilmente gli direbbe che non è possibile perché non ci sono prove, e gli direbbe che si sta facendo un sacco di pippe mentali dato che la struttura mentale delle pulci è limitata, e che dovrebbe quindi rassegnarsi al fatto che le pulci non potranno mai vedere oltre il loro naso. Ecco, mi sembra un po’ questa la visione di Roberto.
    Onestamente Roberto il tuo intervento non mi sembra aggiungere qualcosa a ciò che ad esempio il buddhismo dice già da millenni. Mi chiedo allora perché ti fermi alla conclusione che tanto certi maestri e insegnamenti sono solo opinioni e che non ti potranno mai portare “fuori dal cane”. Dal momento che ne condividi i presupposti cosa ti impedisce di approfondire a mente aperta anche la via di fuga che propongono? che cos’hai da perdere in definitiva?
    Sembra quasi che tu abbia timore di approfondire a priori certi insegnamenti, come se accoglierli come stimoli volesse dire diventare un fanatico privo di ragione. Ma dove sta scritto?
    Ma se fino a prova contraria non dai un pizzico di fiducia a qualcun altro o qualcos’altro, allora rimarrai tu stesso un fanatico delle tue opinioni e dei tuoi ragionamenti.
    Scusa la schiettezza Roberto ma annuso nella tua visione un fortissimo rischio di chiusura ed isolamento nascosto dietro concetti di solo apparente apertura.
    Un sincero augurio di buon cammino

  11. Cari amici, grazie di cuore dei vostri stimolanti interventi, grazie per l’opportunità concessami potermi esprimere liberamente e grazie, soprattutto di avermi letto fino in fondo e non avermi preso per una persona supponente.
    So bene quali sono le mia priorità che, sono certo, corrispondono alle vostre, per cui ho mollato il lavoro e tutto il resto e vi rispondo su quello che avete scritto.
    Dopo di che mi farò da parte, a meno che a qualcuno non interessi approfondire insieme, magari di persona, queste tematiche

    Caro, Simone
    prima di tutto devo dire che apprezzo molto che, in questi nostri scambi, ci si confronti in termini di ipotesi, si parli di opinioni, di possibilità e non solo, come succede di solito, attraverso asserzioni assolute.
    A proposito di ipotesi, il senso del mio intervento era quello di puntare l’attenzione sull’IPOTESI, che possa essere l’aspetto psicologico, l’aspetto mentale quello che crea, per esempio, (facendo riferimento diretto – mi scuserai – alle tue parole, solo per farmi capire ):
    l’idea che ci possano essere dei cartelli indicatori, l’idea che ci sia una meta da raggiungere, l’idea che la “coscienza” sia qualcosa di diverso da quello che siamo noi, l’idea che ci sia qualcuno che guida la macchina che non siamo noi, che ha creato le tradizioni e con esse gli insegnamenti di carattere mistico, l’idea che il “sperimentare” possa rappresentare un qualcosa di oggettivo capace di trasmetterci la Verità.
    E’ chiaro che questa ipotesi (perché di una semplice ipotesi, come tante altre, si tratta) non esclude, non è in contraddizione col fatto che l’Assoluto sia e che noi in qualche modo ne facciamo parte.
    Ci stiamo confrontando solo sul COME andare oltre alla nostra attuale condizione di separazione per confluire nell’Assoluto.
    Il fatto è che se, per caso, questa ipotesi (così razionalmente conseguente e che potrebbe risultare , per questo, in qualche modo plausibile) risultasse in qualche modo corretta, la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe che noi staremmo, senza accorgercene, girando in tondo sempre nel medesimo ambito ristretto, avendo oltretutto anche, qualche volta, l’illusoria impressione di volare.
    La conseguenza sarebbe che staremmo vivendo dentro un’illusione e che continueremmo a nutrirci di illusioni, di altri o quelle che noi stessi alimenteremo.
    Naturalmente si tratta solo di un’ipotesi e speriamo che non sia vera.
    Io, sinceramente, non lo so, ma siccome la considero comunque un’opportunità possibile, lo pongo all’attenzione di tutti perché ognuno possa tenerne conto.
    Speriamo proprio, invece, che ognuno di noi abbia effettivamente la possibilità di arrivare, in un tempo prossimo e venturo, ad affrancarsi dalla condizione attuale, che chi c’è già riuscito possa in qualche modo ad aiutarci, che ci siano “forze” che ci aiutano in tal senso.
    E, soprattutto, speriamo che tutto questo non rappresenti solo una nostra speranza.
    Nel frattempo noi, esseri umani, non possiamo fare altro che portare faticosamente avanti quella strana e indecifrabile attività che chiamiamo “vivere”, mantenendoci curiosi e aperti, sostenendoci l’un l’altro e riconoscendoci come fratelli, accumunati, come siamo, dalla stessa, sicuramente malaugurata, forse necessaria, condizione esistenziale.

    Cara Silvia,
    ogni cosa che ci viene incontro nella vita nasconde il potere di toccarci e di cambiarci.
    Un libro, un film, un incontro, una relazione, uno sguardo, una scena vista per strada, qualsiasi cosa.
    Guai se ci chiudiamo dentro di noi, asseragliandoci come in un fortino per paura di mettere in discussione noi stessi.
    Mettere in dubbio noi stessi è il nostro compito e credo che la vita, volenti o nolenti, ci porti , proprio a questo.
    Il che rappresenta il contrario del chiudersi in uno sgabuzzino.
    Ogni cosa può essere di stimolo, anche le parole di un altro uomo, anche quelle di coloro che vengono definiti “maestri”, ma se finiamo per assumerli per maestri, se concediamo loro un’autorità su di noi, le loro parole, anche se contenessero la stessa Verità, diventerebbero per noi come dei binari dei treni.
    Ci sentiremo bene nell’avere una via sicura tracciata davanti, ma non saremo più liberi.
    Liberi – come dici tu – di sperimentare, liberi di provare e di sbagliare, mettendoci ogni volta in gioco, senza punti di riferimento precisi, mettendoci continuamente in discussione.
    Noi cerchiamo ostinatamente una via d’uscita dalla nostra condizione, ma forse è proprio questo cercare – che corrisponde ad un voler trovare, ad un conquistare – che ci mantiene quel che siamo, che ci impedisce di andare oltre.
    E’ come continuare a spingere una porta che si apre tirando: una qualche possibilità di aprirla la possiamo avere solo se smettiamo di fare pressione (anche a livello psicologico).
    Questo smettere di fare pressione non significa ritirarsi in sé stessi o smettere di agire – semmai il contrario – , questo smettere di fare pressione ha a che fare con il nostro coinvolgimento nelle cose, è inversamente proporzionale all’attaccamento per le cose, inversamente proporzionale alla nostra identificazione con esse.
    Noi cerchiamo sempre di avere dei punti fissi, di sapere cosa fare, ma facendo questo “fissiamo” noi stessi, “manteniamo” noi stessi nella condizione in cui siamo.
    Se sia veramente possibile fare altrimenti non lo so – io non ci sto riuscendo – ma dopo una vita spesa a sperimentare e sbattere il muso contro il muro, mi sento di condividere con chi sento simile a me in questo pellegrinare, le mie scoperte, le mie considerazioni, i miei dubbi, affinché ne tenga conto nel proseguo delle sue esperienze.

    Cari amici dell’associazione Per Ankh
    Non sono molto ferrato in antropologia, ma è vero che l’analisi da me fatta si attanaglia perfettamente all’uomo occidentale moderno.
    Posto che sono d’accordo che la coscienza dell’uomo non è qualcosa sempre uguale a sé stessa (anche se esiste il pregiudizio che lo sia, che esista una “coscienza” assoluta indipendente dalle condizioni di sviluppo materiali) non si tratta di definire se una o l’altra cultura o forma mentis risulti più o meno “egocentrica” laddove questo termine dovrebbe essere più propriamente sostituito dal termine “egoistica”.
    Così come l’intendo io, infatti i due termini hanno due significati diversi.
    Per “egocentrismo”, infatti, io intendo la nostra caratteristica di essere individualizzati, separati dagli altri.
    Già il fatto di avere un corpo fisico, per esempio, ci da la consapevolezza del nostro essere egocentrici, del nostro essere “centri di coscienza” separati dagli altri.
    Diverso è il discorso dell’ “egoismo” cioè della propensione – sviluppata al massimo grado nella cultura occidentale – da parte di quegli esseri egocentrici di mettere in primo piano il proprio personale interesse a discapito di quello degli altri.
    Nei popoli primitivi e, in generale, quando le condizioni materiali si fanno più dure (si pensi al grado di solidarietà che si sviluppa in tempo di guerra e che subitaneamente sparisce in tempo di pace, eppure la guerra non è preferibile alla pace …), l’essere egocentrico che è l’uomo, tende a cercare nel gruppo, nella tribù una sicurezza personale, arrivando, con un processo di tipo conformistico, a mettere da parte le proprie istanze personali a favore del gruppo ricevendone, in cambio, appunto sicurezza, riconoscimento
    Questo non vuol dire che queste culture siano migliori rispetto alle culture più individualizzate tendenti cioè all’egoismo (tant’è vero che l’alto senso di giustizia e di solidarietà all’interno del gruppo non vale nei confronti delle altre tribù, che possono essere combattute e vinte), vuole solo dire che ci troviamo di fronte a modi diversi di essere.
    Ci sono, per esempio, ordini di pensiero “spirituali” che considerano positivo il passaggio da una forma di coscienza di tipo collettivo (la tribù, il gruppo sociale) a quella di tipo individuale, inquadrando questo passaggio all’interno di un processo il cui punto di arrivo sia quello di una nuova solidarietà fra gli uomini basata sulla consapevolezza della comune condizione esistenziale.
    Il ritenere migliore una forma mentis piuttosto che un’altra potrebbe risultare, però, fuorviante perché sposta l’attenzione da quello che rappresenta la caratteristica fondamentale dell’essere umano in genere, che è quella di essere dei “centri di coscienza” legati ad un corpo fisico.
    Se pensiamo alla possibilità, niente affatto retorica, dell’esistenza di “centri di coscienza” svincolati da un corpo fisico e di come questa semplice differenza di condizione, liberi dagli innumerevoli condizionamenti che derivano dal possedere un corpo, dal doverlo nutrire, dal doverlo preservare, ecc. ecc., possiamo capire la portata dell’egocentricità, di questo tipo di egocentricità all’interno della nostra vita.
    Prendi comunque queste mie considerazioni come semplici spunti di riflessione: si tratta ancora e sempre di semplici opinioni personali, indimostrate e indimostrabili, che lasciano, quindi, come sempre il tempo che trovano.

    Cara Sabrina,
    non scusarti della tua spigolosità, io la chiamo franchezza che fra l’altro mi piace molto, comunque sento anche che ci sta dietro un rispetto di cui ti do comunque atto.

    Quando ero ragazzino (10-11 anni) ho visto un film di fantascienza in cui un astronave arrivava su u n certo pianeta. Su questo pianeta c’era una grande casa abitata da un padre con una splendida figlia. Naturalmente il capitano della astronave si innamorava, ricambiato, della ragazza, sennonché ad uno ad uno i componenti dell’astronave venivano orribilmente uccisi da un mostro invisibile.
    Alla fine si scopriva che quel pianeta era un pianeta molto particolare che aveva la proprietà di tramutare in “realtà”, i pensieri.
    Era il padre, animato da un senso di inconsapevole gelosia nei confronti del capitano, che aveva “creato”, sempre inconsapevolmente, il mostro killer.
    Questo film mi è rimasto impresso indelebilmente nella memoria senza che ne capissi il perché, ma poi, col tempo ho riscontrato una possibile somiglianza fra quel pianeta e il nostro mondo.
    In questo universo in cui energia e materia sono legate e il pensiero (non quello razionale) è energia, tutto diventa possibile.
    Ecco allora che potrebbe essere la stessa convinzione della pulce di essere pulce che mantiene l’universo e imprigiona la pulce stessa nella sua condizione.
    Se ad una pulce si dice che si trova sopra un cane, che questi ha un padrone e via di seguito (il che corrisponde, in qualche modo, al dirle che è Figlia di Dio …) lei ci crede perché vuole crederci, perché ha bisogno di crederci.
    Ma proprio questo dirle che lei, proprio lei, è Figlia di Dio, impedisce alla pulce di uscire dalla propria convinzione di essere pulce, le trova un altro bel modo di stare a questo mondo, impedendole di mettere definitivamente in discussione sé stessa scoprendo così la sua vera natura.

    Ci sono stati tanti che hanno intuito queste cose e i testi importanti sono pieni di spunti in tal senso, solo che questo mondo/pianeta è il mondo dell’illusione e l’illusione è più forte di qualunque cosa.

    Come detto agli altri sono perfettamente consapevole che queste mie considerazioni non sono altro che il frutto del mio parziale, soggettivo e arbitrario sistema di pensiero.
    Rappresentano un gioco della mente che valgono all’interno del mio sistema di pensiero e alla luce dei preconcetti su cui questo si basa mentre al di fuori di esso, alla luce di altri sistemi di pensiero, non stanno in piedi.
    Però, essendone consapevole non credo che mi si possa definire un “fanatico delle mie opinioni” le considero per quello che sono: una mia personalissima e , in questo caso, particolarmente bislacca opinione.
    Ma tutto ciò rappresenta un modo d’essere contrario a quello di credere semplicisticamente a quello che si è in questo mondo.
    Che è appunto il problema della pulce.

    Una buona vita anche a te, Sabrina, e non perdere mai la tua passione.

    Ciao a tutti
    Roberto

  12. L’aspetto interessante e ancora poco esplorato che volevamo evidenziare – forse non riuscendoci dato che l’argomento meriterebbe ben più spazio che poche parole in un blog – è che pare proprio che certe culture a noi poco conosciute siano caratterizzate da una predisposizione interiore che potremmo definire “egocentricamente cosciente”; in altre parole consapevoli di essere individualizzati ma non identificati con tale individualizzazione, e quindi con una visione e percezione della realtà molto più libera della nostra.

    La rivoluzione concettuale degli antropologi di cui abbiamo accennato è proprio volta a mettere in discussione le premesse di base da cui siamo stati abituati/programmati a partire, citando Roberto:

    “Nei popoli primitivi e, in generale, quando le condizioni materiali si fanno più dure (si pensi al grado di solidarietà che si sviluppa in tempo di guerra e che subitaneamente sparisce in tempo di pace, eppure la guerra non è preferibile alla pace …), l’essere egocentrico che è l’uomo, tende a cercare nel gruppo, nella tribù una sicurezza personale, arrivando, con un processo di tipo conformistico, a mettere da parte le proprie istanze personali a favore del gruppo ricevendone, in cambio, appunto sicurezza, riconoscimento.”

    Si tratterebbe al contrario di una predisposizione interiore di natura differente, difficilmente concepibile per la nostra mentalità. Riguarda veri e propri “centri di coscienza” consapevoli di essere individualizzati in un corpo fisico e allo stesso tempo liberi di osservare e osservarsi dal di fuori di questo vincolo biologico.

    E’ proprio da tale punto di vista che l’antropologia stessa sta rivalutando il senso del sacro e di certe saggezze tradizionali come una possibile strada in grado di portare l’essere umano a vivere nel mondo ma con una coscienza al di fuori del mondo. L’analogia con la storiella delle pulci è immediata.

    Non ci dilunghiamo oltre solo per non rischiare di sintetizzare malamente e in modo incompleto un argomento affascinante e stimolante. Ma per chiunque abbia voglia di approfondirlo, possiamo garantire che ne varrà la pena; con un pizzico di apertura mentale le vertigini interiori sono garantite!

  13. Se partiamo dall’idea che al di là del nostro corpo fisico non siamo nulla, allora certamente dalla nascita veniamo plasmati e programmati al cento per cento da ciò che ci circonda e non ci può essere spazio per altro.
    Se invece partiamo dall’idea che dentro di noi c’è anche altro, allora questo altro c’era anche prima della nostra nascita, e inevitabilmente compartecipa attivamente durante la nostra crescita e il nostro sviluppo in questo mondo. Il problema è dunque capire in che modo possiamo alimentare e conoscere questo altro e deprogrammare il resto, opinioni, identificazioni, paure, eccetera.
    Inutile girarci attorno con troppe parole, se vogliamo vedere il cane e oltre, dobbiamo partire da qui. O sentiamo possibile la prima soluzione o la seconda. Se sentiamo possibile la seconda dobbiamo compiere una scelta, e FARE qualcosa in quella direzione. Solo pensarci o ragionarci non può che affossarci e spegnerci pian piano. Sono le esperienze concrete che ci cambiano, non le riflessioni comodi in poltrona.
    Certamente, maestri o non maestri, il trovare un gruppo di persone seriamente motivate con cui condividere un cammino è a mio avviso fondamentale.
    Così è come la vedo e la vivo io.
    Saluti

  14. Perdonami ancora Roberto ma continuo a leggere nelle tue parole un tentativo di dimostrare le tue opinioni più che un cercare di aprirti a delle nuove. Rimanendo all’interno dei tuoi ragionamenti non avrebbe veramente senso per te continuare a postare commenti come stai facendo, se non per voler porti tu come maestro che vuole cercare di convincere tutti che sono solo creduloni e che tanto non potranno mai vedere al di là del loro naso.
    In tutti i tuoi interventi traspare il fatto che tanto sono tutti vittime illuse di sistemi di pensiero, non c’è parola, citazione o personaggio che tu non voglia ridurre a priori, e magari senza ben conoscere, a pulce incatenata.
    Se fossi un materialista e ateo convinto lo potrei capire benissimo, ma così non mi pare.
    Per quel che può valere la mia sensazione, è che tu ti senta in realtà molto solo e forse demotivato da alcune esperienze, e che cerchi di dimostrare più a te stesso che agli altri che tanto non c’è strada migliore oltre a quella in cui ti trovi tuo malgrado. Perdonami per l’ultima volta ma il tuo approccio non è molto diverso dal buddhista o dal cristiano che si fingono umili e aperti a parole ma in realtà pensano che le altre strade siano comunque di meno valore della propria, cambiano solo i concetti ma lo stile è proprio lo stesso.
    Ma così facendo ti precludi chissà quale altra nuova esperienza che potrebbe portarti anche fuori dalla condizione di pulce. Chi può dirlo?

  15. Rispondo agli amici dell’associazione Per Ankh

    Questo aspetto non lo mai esplorato e devo dire che mi sembra molto interessante.
    Grazie e a presto … (in separata sede)

    Agli altri commenti

    Mi ritiro in buon ordine a crogiolarmi nella mia solitudine e disperazione.
    Addio blog crudele …

  16. Mi dispiace Roberto che tu l’abbia presa così, ma dobbiamo avere il coraggio di metterci in discussione in prima persona senza nasconderci dietro opinioni troppo impersonali dalle quali sentirci più elevati e lungimiranti di altri. Ti ho dato il mio parere solo perchè hai detto di apprezzare la mia franchezza.
    Magari la mia impressione è completamente fuori pista o magari ti può aiutare a valutare degli aspetti di te stesso che non consideravi.
    Io non sono il blog ma lo apprezzo proprio per il fatto che non è uno spazio troppo filosofico e in cui è possibile confrontarsi apertamente senza troppi fronzoli e troppe diplomazie.
    Sinceramente non credo di averti mancato di rispetto nell’averti parlato apertamente di quello che sembra di leggere tra le righe dei tuoi commenti, e forse è quello che hanno percepito anche altri lettori. Credo che tu debba tenerne conto senza sentirti offeso o incompreso ma piuttosto con una sana non identificazione costruttiva.
    D’altronde non è questo lo scopo di questo blog? aiutare a conoscere se stessi? possiamo forse farlo solo attraverso filosofie e opinioni?
    Le persone che mi hanno aiutata di più nella mia vita sono quelle che mi hanno spiattellato le cose che vedevano o percepivano di me in faccia, soprattutto quando queste cose a me non piacevano per niente.
    Auguri per tutto

  17. Cara Sabrina, non temere non mi sono offeso anzi mi è venuto da sorridere a vedere l’impeto e la sicurezza che tu (e anche “pulce motivata”) mettevate nelle vostre prese di posizione.
    Poi, siccome tendo sempre a vedere il lato comico delle cose, ho scherzato sull’immagine di me che veniva fuori dai vostri interventi (quell’ “addio blog crudele” altro non era che la parodia di “addio mondo crudele”…).
    Scusa se l’ironia è risultata fuori luogo.
    Sono stato molto contento di questi scambi e, credimi, a niente sono indifferente e di tutto tengo conto.
    Tanti, tanti auguri anche a te.

    Roberto

  18. Bene, ne sono felice.
    Per quanto mi riguarda, l’impeto che ci metto è dovuto al fatto che mi sento responsabile di quello che scrivo e in parte anche di quello che leggo, dato che molte altre persone leggeranno questi miei e tuoi interventi prendo la cosa molto seriamente.
    La sicurezza invece è dovuta a varie esperienze attraverso cui sono passata e che mi hanno fatto toccare con mano determinate cose, come un bambino impara a capire che il fuoco può bruciare ma può anche scaldare. L’incertezza e l’apertura verso nuovi possibili utilizzi non sono sinonimo di insicurezza sul fatto che se ci metto la mano dentro mi scotto. Possiamo passare la vita intera a fare filosofia sul fatto che il fuoco in realtà non è quello che pensiamo essere, ma i suoi effetti su di noi rimarranno comunque gli stessi.
    Nelle tue parole ho visto proprio questo rischio, anche perché ci sono passata attraverso per molto tempo.
    Rinnovo i saluti e gli auguri

  19. Secondo l’ingegneria più avanzata, un bombo non potrebbe volare, un nuraghe non potrebbe stare in piedi, sono cose impossibili, inutile contemplare altre possibilità. Ma, strano, noi vediamo i bombi volare in natura e vediamo i nuraghi ancora in piedi da millenni in Sardegna.
    Secondo l’ingegneria interiore di Roberto sembrerebbe che le pulci non possono liberarsi dai loro modelli mentali… ma siamo sicuri che Roberto abbia guardato a fondo intorno a sè?

  20. Buongiorno a tutti.
    Propendo anch’io verso la visione di Roberto, secondo la quale nessuno è mai riuscito a uscire da questo Matrix, e dubito che sia possibile farlo. Per come la vedo io, la pulce può solo aspettare di andarsene da qui, e se si spegneranno completamente le luci… arrivederci e grazie. Se invece ci sarà altro, lo vedrà da sé.
    Ma le parole di thomas mi hanno fatto riflettere, e per onestà intellettuale devo ora riconoscere che questa mia visione mi fa in parte anche comodo e mi tranquillizza. Mi spiego meglio: l’idea che qualcuno sia riuscito ad uscirne, un po’ mi inquieta. Mi inquieta perché, se così fosse, non saprei proprio come fare a riconoscerlo o come fare a riconoscere la strada tracciata. E se anche dovessi riuscirci, temo che la cosa diventerebbe assai impegnativa, perché a quel punto non potrei più fare finta di niente. Avrei il coraggio di dedicarmici completamente? Non so.
    Potrà sembrare assurdo, ma mi rasserena seppur malinconicamente il fatto che nessuno ci sia riuscito, e non posso escludere che questa visione abbia la stessa origine di chi invece è convinto che di maestri ne sia pieno il mondo: il bisogno di certezze, sicurezza e tranquillità.

  21. In risposta a Barbabianca

    Il fatto che nessuno sia mai riuscito ad uscire da Matrix rappresenta una mia “idea” che, in quanto “idea”, rappresenta un qualcosa di non dimostrato e indimostrabile.
    In realtà noi non possiamo sapere se qualcuno ci sia riuscito o meno, perché le nostre percezioni, in quanto pulci immerse in Matrix, sono limitate ( e quindi non in grado di restituirci una visione corretta della realtà reale) e le nostre sensazioni ed elaborazioni mentali rappresentano comunque elementi soggettivi ed arbitrari.

    Quanto scritto nelle due frasi precedenti, però, derivano dal preconcetto, che sta alla base del mio particolare ed arbitrario sistema di pensiero, per cui, appunto, non ritengo possibile per noi, in quanto pulci in Matrix, avere una visione completa e oggettiva della realtà.

    Se un’altra persona parte dal preconcetto opposto, cioè che sia possibile avere in qualche modo (intuizione, fede, rivelazione, esperienza straordinaria) la percezione esatta e completa della realtà, la sua conclusione risulterà opposta nel senso che riterrá possibile, anzi darà quasi per scontato che qualcuno ci sia riuscito ad uscire da Matrix e che il problema vero sia quello di saper riconoscere chi ci è riuscito veramente rispetto a quelli che o fanno finta di averlo fatto o semplicemente si illudono di averlo fatto.
    Il problema quindi, in questo caso, è quello di riconoscere in “veri” maestri dai “falsi”.

    Peccato, però, che, come dice il nome, i preconcetti sono quei punti fermi (che stanno alla base e puntellano il nostro sistema di pensiero) che, ad un certo punto della nostra vita abbiamo, per conformarci ad un certo modello, arbitrariamente fissato per noi stessi.
    Sono elementi che abbiamo fissato arbitrariamente, ma che tendiamo a dare per assoluti perché definiti con un meccanismo mentale che ci appare “naturale”.
    Ma l’averli fissati arbitrariamente, fa sì che anche ogni conclusione sia arbitraria e quindi si ricade nuovamente in una forma di INDETERMINATEZZA di cui sotto sotto tutti siamo consapevoli.
    Questa indeterminatezza si traduce in insicurezza e paura e, questa a sua volta, nel bisogno di sicurezza .
    Il bisogno di sicurezza si traduce nella ricerca di una ancora maggiore definizione di sé e nell’identificazione perfetta con un nuovo modello di comportamento e di vita (più ampio e profondo) che alla fine si rivelerà comunque inadeguato a portarci fuori da quella indeterminatezza.
    L’uomo/pulce cerca allora di compensare il proprio disagio esistenziale con vari sistemi: con l’accumulo di denaro, con la ricerca del potere, rifugiandosi nei piaceri, cercando il riconoscimento sociale, inseguendo mete sempre più alte, impegnandosi nella “spiritualità” ( il “modo”, in fondo, non riveste una particolare importanza) ma la paura di fondo rimane ineliminabile.

    C’è qualcosa, però, che ci può aprire uno spiraglio imprevisto.
    Nei giorni scorsi, per esempio, ho comprato in un negozio specializzato (per 1 euro!) uno di quei fossili fatti a chiocciola (ammoniti) vecchio di 16 milioni di anni fa.
    Ora, se io fossi un personaggio dentro una realtà virtuale come quella del computer e riconoscessi l’uno/zero che ne sta alla base, è come se trovassi la “firma” del creatore del sistema.
    Se in quel fossile vecchio di 16 milioni di anni (sedici milioni di anni PRIMA della nostra Storia pulcesca con i suoi eroi, navigatori, profeti e santi…) ritrovo l’armonia perfetta dello sviluppo della forma basato sulla sezione aurea, posso arrivare a riconoscere in ciò la “firma” del creatore del sistema.
    Come il personaggio all’interno della realtà virtuale del computer non sarò in grado di comprendere la natura e la incommensurabile grandezza del creatore del sistema, ma quel riconoscimento fa sì che possa pensare che esista una Logica superiore nell’apparente caos di questa manifestazione, che ci sia un’Intelligenza che sottende a tutte le cose di questo universo.
    Il fatto che questo mondo risulti armonico, equilibrato, complesso, rappresenta un segno che indica che ogni cosa ha il suo senso,e di questo segno mi posso “fidare”, su di esso posso far affidamento.

    Può tutto ciò riuscire a scacciare la nostra paura?
    No, non può perché è intrinseca nella nostra condizione esistenziale, nel nostro modo di esistere.
    Può, però, contribuire a dare un senso al nostro esistere dentro Matrix, può contribuire a relativizzare ciò che ci capita dentro Matrix creando una distanza fra noi e le cose.
    Può rappresentare una messa in discussione della identificazione perfetta con quello che siamo dentro Matrix.
    Non elimina la paura, ma ci rende più distaccati rispetto alle cose che ci capitano, meno coinvolti nelle nostre passioni, più consapevoli della comune condizione esistenziale, più forti, in definitiva, nei confronti della vita.

    D’altra parte, se ci pensiamo bene, se veramente siamo immersi in una realtà virtuale come Matrix con tutta la sofferenza che questo comporta,
    avrebbe senso essere “tranquilli” in Matrix?
    Avrebbe senso essere in “armonia ” in Matrix?
    O l’unica cosa che ha senso è USCIRE da Matrix?

    Il problema allora è come uscire da Matrix o, meglio, comprendere cosa ci impedisce di uscire da Matrix.

    Un esempio che si può fare per capire cosa ci impedisce di uscire da Matrix è il seguente.

    Mettiamo che Matrix sia come un gioco interattivo.
    Ad un certo punto siamo entrati nel gioco ed abbiamo cominciato a giocare al grande gioco della vita, solo che ci siamo così appassionati, siamo rimasti così coinvolti che, come quando si legge un libro molto appassionante, ci siamo così immedesimati nel personaggio che interpretiamo nel gioco, da dimenticarci di noi stessi.
    Siamo così presi dal gioco, così identificati con quello che pensiamo di essere nel gioco che non ci ricordiamo più che siamo i giocatori e non il personaggio.
    Se ce ne ricordassimo, anche solo per un istante, se fossimo in grado di andare oltre all’illusione che tutto in Matrix (la realtà e noi stessi) sia vero, allora smetteremo di giocare a questo gioco affascinante, ma doloroso.

    Sembrerebbe facile, ma non lo è, anche perché c’è un aspetto che complica ancora di più le cose, un aspetto che viene sottostimato dai cosiddetti “materialisti” e che viene invece frainteso dai cosiddetti “spiritualisti”: Matrix , il gioco interattivo non si svolge solo su un piano, ma si svolge su due piani.
    È composto da due livelli uno che io definisco ” materiale grossolano” che è quello della coscienza ordinaria del personaggio e un secondo livello, più nascosto, che io definisco “materiale sottile” ( il cosiddetto “mondo astrale”) di cui noi personaggi del piano più superficiale, sappiamo poco o niente.
    Sono due livelli diversi, ma tutti è due fanno parte di Matrix.
    Solo che per noi personaggi, completamente immersi ed identificati nel livello più superficiale e praticamente incoscienti dell’altro, tendiamo a scambiare, aprioristicamente , tutto ciò che deriva in qualche modo dal livello più nascosto, per qualcosa di “superiore” , di avente a che fare con il “divino”.
    Il problema è che, se ciò che non permette al personaggio che siamo di uscire da Matrix è l’identificazione perfetta con il modello di vita che interpretiamo dentro Matrix, il fatto che questo modello risulta avvalorato da riferimenti che giungono dal livello più nascosto, mettere in discussione quello che si è all’interno di Matrix diventa ancora più difficile.
    Il modello diventa un ” super modello” rivestito com’è di alti valori “spirituali” e anche se, a parole, proclama di rappresentare una possibilità di liberazione rispetto a Matrix, in realtà, rafforzando il personaggio che siamo dentro Matrix, rappresenta di per sè stesso l’impedimento affinché una reale liberazione diventi possibile.
    In questo senso, da questo particolare punto di vista (personale e arbitrario) chiunque (maestro, chiesa, gruppo religioso) proponga un qualsiasi “modello” di vita e di comportamento sta offrendo in pratica al personaggio che siamo, una nuova possibilità di esistenza dentro Matrix.

    Per uscire da Matrix la via non passa attraverso un “miglioramento qualitativo” (morale, spirituale) del personaggio, ma attraverso la messa in discussione di sè stesso da parte del personaggio, la rinuncia a sè stesso, per riscoprirsi il giocatore che in profondità invece è.
    Arrivando così a smettere definitivamente di giocare.

    Credo che questo sia il nostro “compito”, il nostro destino.
    Credo che la vita ci porti a questo e ad essa possiamo affidarci.
    Che ci debba arrivare singolarmente o che, come mi appare più probabile, che siamo destinati ad arrivarci tutti insieme, poco importa, ma prima o poi succederà.
    Prima o poi, se c’è una Logica, immancabilmente succederà.
    Potranno passare 10 minuti oppure secoli, non ha importanza, perché fuori da Matrix il tempo non esiste nemmeno.

    Naturalmente tutto quanto risulta scritto qui sopra, sono sempre e solo parole, sono sempre pensieri, prodotti della mente, elaborazioni mentali a proprio uso e consumo.
    Rimane il fatto, ineliminabile, che in realtà “non possiamo sapere”, ma proprio questo “sapere di non sapere” può rappresentare la leva capace di mettere in crisi quel meccanismo che ci rinchiude nella identificazione perfetta in quello che siamo dentro Matrix .
    Non sforzandoci di astenerci dall’avere idee, dal coltivare opinioni – che, per come siamo fatti non è possibile – , ma riconoscendole come prodotti, soggettivi e arbitrari, della nostra mente, Già questo riconoscimento rappresenta un salto enorme che può regalarci una nuova consapevolezza.
    Perché, alla fine ciò che determina la possibilità di uscire da Matrix, la vera discriminante , non risiede, forse, in ciò che facciamo, pensiamo o crediamo, ma risulta inversamente proporzionale a quanto ci identifichiamo in quello che facciamo, pensiamo e crediamo, a quanto ne risultiamo coinvolti.
    La libertà dalle nostre passioni, dalle nostre opinioni, dalle nostre certezze, da noi stessi può rappresentare la vera chiave per arrivare a trascendere Matrix.

    Caro Barbabianca ( a proposito io ce l’ho davvero la barba bianca …) ho cercato qui, più onestamente possibile, di riportare la mia visione delle cose rispetto alle problematiche esistenziali, comuni a tutti noi, che hai palesato, con coraggio, nel tuo intervento.
    Perdona se appariranno dei rimasticamenti di quanto già in precedenza scritto, ma, ti assicuro che lo sforzo per comunicare veramente è genuino, l’esigenza di farlo profondamente sentita, senza alcuna pretesa di una qualsiasi competenza o particolare conoscenza.

    Roberto

  22. DANTE ALIGHIERI è un Maestro risuscitato. Nel suo Libro La Divina Commedia, egli descrive i nove cerchi infernali delle infradimensioni

    la Maestria è ottenuta da colui che diventa un Uomo, cioè quando riceve la quinta iniziazione. Il Maestro perfetto è colui che è arrivato a realizzare la Grande Opera.

    il MAESTRO DI COMPASSIONE sconvolto dal dolore umano, rinuncia al Nirvana e resta con noi in questa valle di lacrime.

    il MAESTRO RISORTO quando un adepto rinuncia alla felicità suprema del Nirvana per Amore verso l’Umanità, può chiedere l’Elisir di lunga vita. Coloro che hanno la possibilità di ricevere questo Elisir, “muoiono, ma non muoiono”. Il terzo giorno risuscitano e conservano il loro corpo fisico per milioni e miliardi di anni.

    Non centra nulla la Matrix, bensi la volontà! l’umiltà! e la purezza di cuore….oltre all’arcano AZF

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