Quando venne chiesto a Krishnamurti – verso il finire della sua vita – per quale motivo tra migliaia di persone che seguirono il suo insegnamento nessuno o quasi nessuno sembrava averlo realmente realizzato, tutti si sarebbero aspettati una risposta del tipo:
“Non è stato compreso”, oppure “alle persone in realtà non interessa così tanto”.
Invece, con sorpresa di tutti, Krishnamurti rispose:
“Il problema è che le persone non hanno energia”.
L’enigma di questa risposta è ancora vivo, ma se ci osserviamo con crudo realismo possiamo sentire risuonare l’eco di queste parole dentro di noi.
Ci viene in soccorso un’antica leggenda Inca.
Un giorno la Gerarchia degli Uccelli si riunì in un prato. C’erano tutti: il Gheppio, il Falcone, il Gufo, il Condor e lo Sparviero. Il Condor dichiarò di aver volato più a lungo, lontano e in alto, e di essere arrivato ai cancelli del mondo superiore. Proprio in quel momento arrivò il Colibrì, che disse:
“Questo è vero, ma io posso andare oltre i cancelli arrivando al trono di Dio, al centro dell’hanaq pacha (mondo celeste)”.
Alla presenza degli altri animali i due uccelli fecero allora una scommessa, e ognuno di loro dichiarò che sarebbe riuscito a volare fino al cuore del mondo superiore.
Il giorno fissato si presentò però solo il Condor. Tutti i volatili si erano radunati per assistere alla competizione; aspettarono diverso tempo ma il Colibrì non si vedeva. Dissero quindi al Condor che “una scommessa è sempre una scommessa” e anche se da solo lui avrebbe dovuto fare un tentativo.
Il rapace aprì così le sue ali immense e volò fino al limite del mondo superiore, ma quando si fermò a riposare dal difficile e lungo viaggio, dalle sue ali uscì il suo rivale che volò fino al trono di Dio. Ecco chi è il Colibrì.
Come ben sapevano gli antichi, possiamo imparare tutto su di noi osservando la natura. Vediamo che il condor è uno degli uccelli più grandi e più forti, ma per raggiungere il trono di Dio occorre possedere anche l’intelligenza, la leggerezza e la gioia infinita del colibrì.
I due uccelli non avrebbero potuto portare a termine il loro proposito da soli; senza la volontà e la tenacia del condor il colibrì non avrebbe mai potuto compiere tutto il viaggio fino ai confini del mondo, così come il condor non avrebbe mai avuto la possibilità di spigersi ancora oltre con quell’ultimo atto di libertà.
Questa leggenda svela forse l’enigma delle parole di Krishnamurti: non è sufficiente riflettere e meditare profondamente su noi stessi e sulla vita, occorre anche “mettersi in viaggio” fattivamente per coltivarli e sperimentarli con perseveranza.
Ecco quello che potrebbe essere a nostro avviso un bellissimo connubio del messaggio di Krishnamurti con quello di Gurdjieff…
Gli alchimisti chiamavano “soffiatori di immagini inutili” quelle persone che passavano il loro tempo a riflettere filosoficamente sulla vita e su come siamo fatti senza in realtà cambiare di una sola virgola le loro abitudini e la loro vita quotidiana. Semplicemente, si accontentavano di pensare alla Via nella loro testa, e quindi non la vivevano.
Credo che Krishnamurti abbia voluto proprio evidenziare questo sofisticatissimo rischio per chi si pone delle domande un pochino al di sopra della media (che si mangia? chi gioca stasera allo stadio? …). Gurdjieff era forse più enigmatico e severo, ma certamente non permetteva alle persone di trastullarsi in ciance mentali. Infatti i suoi veri allievi si potevano quasi contare sulle dita di una mano.
Saluti
La differenza fondamentale fra Krishnamurti e Gurdjieff consiste, a mio avviso, nel fatto che uno parla, a proposito della Verità, di una “terra senza sentieri, l’altro si fa premura ad indicare una “via”.
Al di là della facile ironia, il tutto nasce dalla considerazione di K. che l’Assoluto, l’Inconoscibile si trova al di fuori del tempo e dello spazio.
La Liberazione dalla gabbia mentale che noi siamo (siamo, non in cui siamo rinchiusi …) dovrà, allora, semmai avvenire nel “qui e ora” e corrispondere ad un grande salto di consapevolezza, o, meglio, un grande salto fra una vecchia e una nuova coscienza.
Ogni dilazione nel tempo (datemi tempo e io migliorerò fino ad essere pronto …) rappresenta per K. un trucco della mente per trovare un modo per poter continuare ad essere, per salvaguardare sé stessa, per la sua stessa sopravvivenza, per la sopravvivenza della costruzione mentale che noi siamo.
Krishnamurti diceva che l’idea di evoluzione (così diffusa anche in ambito “spirituale”) rappresenta la semplice trasposizione, ad opera della mente, di ciò che succede nell’ambito materiale, in un ambito che si situa invece fuori dallo spazio e dal tempo, mentre tutto ciò che ha a che fare con il tempo (un Cammino, un’evoluzione, un compito, il perseguimento di un modello di vita e di comportamento …) rappresenta un trucco in grado di giustificare il nostro essere e, per ciò stesso, di conseguenza, rappresenta nel contempo l’impedimento a che un altro modo d’essere si possa palesare.
Questo può piacere o non piacere, si può essere d’accordo oppure no (dipende sempre da quali presupposti uno decide di partire per elaborare la propria personale, limitata, soggettiva e provvisoria costruzione mentale), ma questo rappresenta la discriminante fra K. e tutti gli altri.
Se dovessimo dare una raffigurazione di questa visione di K. potremmo immaginare la condizione umana come quella di un criceto che fa girare la sua ruota.
Solo che la ruota è così grande che noi criceti non ci rendiamo nemmeno conto di essa: continuiamo ad avanzare pensando di andare in qualche direzione, ma, in realtà siamo sempre fermi nello stesso posto.
Potremmo andare avanti sempre così, ma la logica che c’è dietro le cose solo apparentemente casuali, fa sì che ogni tanto ci accorgiamo di quella particolare traversina di legno che avevamo già notato in precedenza.
In quel momento, per un attimo, ci rendiamo allora conto della nostra situazione, della nostra condizione esistenziale.
In fondo in fondo lo sappiamo bene cosa ci sarebbe da fare. Dovremmo semplicemente gettarci fuori dalla ruota, ma sotto di essa c’è un baratro senza fine apparente e l’unica cosa che ci risulta sicura è che noi, per quello che siamo o pensiamo di essere, non sopravvivremmo al salto.
Poiché non abbiamo il coraggio di buttarci (possiamo dire che ci manca l’energia di farlo?), ecco che ci inventiamo di non essere ancora pronti, di doverci prima preparare.
Mettiamo qualche bel lumino, spandiamo dell’incenso, leggiamo i libri dei “maestri”, di impegniamo in studi e ricerche, consacriamo la nostra esistenza ad un fine superiore.
Continuando ad avanzare stando fermi nello stesso posto.
Quella storia riportata nel post è molto bella, ma anche quella può essere vista come il prodotto di una mente, come qualcosa che riflette quella logica di salvaguardia del sistema che siamo (intanto mi faccio trasportare dal Condor e poi, quando sarò al punto giusto, quando sarò pronto …) .
Certo per arrivare a riconoscere la condizione in cui ci troviamo dobbiamo arrivare a vedere e comprendere i meccanismi che ci determinano (e in questo sia Krishnamurti che, come sto vedendo negli ultimi post, Gurdjieff possono essere preziosi), ma la vera domanda è quale è il vero “movimento” necessario, qual è l’”operare” che ha un senso, a cosa corrisponde quel “mettersi in viaggio” auspicato nel testo ?
Questo “fare” non nasconde il bisogno, per quello che siamo o pensiamo di essere, di continuare ad essere?
Oppure, potrebbe essere il “non fare”, inteso come messa in discussione di quello che siamo o che pensiamo di essere, a rappresentare la vera, necessaria, determinante possibilità di azione?
E se qualcuno comincia a mettere in discussione sé stesso non si ritrova poi in una condizione di continuo mutamento?
E se il mutamento è continuo, come può uno essere definito “fermo”?
Come si può pensare che si possa fermare?
Come si può non pensare che ogni cosa che gli viene incontro nella vita non rappresenti qualcosa su cui “lavorare”?
E’ più facile perseguire una via tracciata o mettere continuamente in discussione sé stessi?
E se anche la via tracciata che si intende perseguire parla del mettere in discussione sé stessi, non rimane essa comunque una via, un processo rinchiuso nello spazio/tempo?
Non rappresenti essa stessa l’ impedimento affinché il vero mutamento sia?
Ancora una volta grazie per la possibilità che mi date di esprimermi.
Tanto di cappello per la vostra incapacità di accontentarvi, di rimanere fermi.
Roberto
PS: Debbo molto a K. come stimolo e possibilità di vedere le cose da un differente punto di vista, ma sinceramente ritengo che nemmeno a lui sia riuscito il Grande Salto …
Quali elementi consideri per ritenere che Krishnamurti non sia riuscito a fare il Grande Salto? E quali elementi potresti considerare per accertarti che una persona sia riuscita a compierlo? Oppure quali elementi dai per scontati per ritenere che questo salto sia impossibile da fare?
Si tratta di un impressione personale che, in quanto tale non vale niente.
Ho introdotto quel post scriptum solo per far trasparire il mio reale rapporto con le idee di K.
Poi non è così importante.
Le riflessioni di Krishnamurti sono molto più vaste e a volte contradditorie di quello che può far comodo pensare. Proprio dietro queste apparenti contraddizioni si può però leggere tra le righe una coerenza di visione eccezionale e di ampio respiro.
K. diceva infatti che “fare esperienza della verità richiede una grande intelligenza, una grande quantità di indagini e ricerche”. Se questo tipo di intelligenza, indagini e ricerche le sintetizziamo nella parola “via”, il gioco è fatto.
K. mostrava in sostanza che quando parliamo di tempo ci proiettiamo nel futuro rimandando il problema esistenziale e scappando dal “qui ed ora”, ma è proprio quello che faceva Gurdjieff stimolando con vari shock i suoi allievi.
Se rimaniamo focalizzati solo sul significato superficiale delle parole (volontà, azione, libertà, tempo, spazio, cammino…) allora i due approcci sembrano in contrapposizione l’uno con l’altro, ma se cerchiamo di approfondire cosa intendessero con quei concetti, diventano molto più simili e quasi complementari.
Cambia ovviamente l’approccio, mentre K. si rivolgeva alle grandi masse G. si concentrava sulla formazione di poche persone seriamente motivate.
Si dice che ai tempi di Lao Tzu e Confucio, i rispettivi discepoli si criticavano reciprocamente per via di filosofie di vita molto differenti. Poi un giorno i due saggi si incontrarono, e sotto lo stupore di tutti i discepoli si abbracciarono gioiosi dicendo di aver finalmente incontrato qualcuno che vedesse la vita nello stesso modo. Anche K. e G. si sarebbero forse abbracciati, chi lo sa…
Come disse qualcuno di cui non ricordo il nome: “la conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano”.
Non ho alcuna voglia di mettermi a polemizzare, anche se su quel “può far comodo pensare” ci sarebbe molto da dire.
Aggiungo queste righe solo per spiegarmi meglio e, se possibile, eliminare l’impressione che posso aver dato di aver mancato di rispetto a coloro che si impegnano in una ricerca personale in campo spirituale.
Noi tutti esseri umani siamo impegnati a svolgere nostro malgrado e senza che l’avessimo scelto, un’attività strana, di cui non conosciamo il senso e le implicazioni.
Questa attività è: vivere.
I miliardi di individui che compongono l’umanità sono tutti impegnati in un unica cosa:vivere.
Sia chi deve lottare giorno per giorno per sopravvivere e chi ha il problema di riempire il tempo libero, in pratica non stanno facendo altro che vivere.
Questo è il dato reale, tutto il resto, tutti i sensi che diamo alle cose , le giustificazioni che diamo a noi stessi, le motivazioni che ci muovono, le scale di valori che fissiamo, le aspirazioni, le ambizioni, i desideri, le paure, ecc.ecc., non sono altro che il prodotto di quella capacità di pensiero (condizionato e limitato) connesso, nell’essere umano, a quel vivere.
Tutto il resto è soggettivo e,quindi, per definizione, arbitrario.
Nel momento in cui diamo un valore superiore ad una particolare attività del vivere (ad es., nel nostro caso, all’impegnarsi in una ricerca personale in campo spirituale) , dovremmo essere coscienti che stiamo stiamo facendo qualcosa di arbitrario, che vale per la visione delle cose nostra e del nostro gruppo psicologico di riferimento, ma sicuramente non vale per le visioni di altri gruppi psicologici e, forse, dico forse, non vale nemmeno in termini assoluti (per esempio una vita vissuta intensamente a stretto contatto con le miserie e le contraddizioni del mondo potrebbe avere, teoricamente, una valenza superiore…).
Il pericolo sta nella identificazione perfetta con il modello di vita e comportamento che abbiamo scelto per noi stessi, nell’appagamento che riceviamo in questa piena identificazione a discapito di ogni possibilità di emancipazione da quegli stessi meccanismi che ci obbligano a identificarci.
Sia chiaro che anch’io ritengo necessario porsi delle domande, approfondire, confrontarsi con il pensiero degli altri, indagare, ricercare, anche perché tengo ben presente la differenza fra “semplice” e “sempliciotto” riportata in un vecchio post di questo blog.
Tutto questo l’ho fatto per tutta una vita e non ho ancora perso il vizio, ma, forse, la chiave per comprendere sta tutta nel grado di identificazione con cui si fanno le cose.
Forse non è importante quello che si crede o si pensa, ma è quanto ci si identifica in quello che si crede e si pensa a determinare la forza condizionante della prigione mentale in cui risultiamo rinchiusi.
Ognuno deve trovare una sua risposta a questa contraddizione che, se si guarda bene, è la stessa presente nella citazione fatta da Simone:
“la Conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo quelli che la cercano la trovano”.
Personalmente poi sono convinto che niente sia casuale, che nella vita sia presente una Logica per cui, alla fine, nessuno è nel posto sbagliato, nessuno sta facendo la cosa sbagliata, ognuno è confrontato, volente o nolente, con ciò con cui ha bisogno di confrontarsi.
“L’unico maestro è la vita” diceva Henk Leene (vedi post e commenti del 25 agosto) e in quel abbandonarsi alla vita sta, forse, la chiave del tutto.
Roberto