La Qabbalah in cucina

E chi lo dice che l’alimentazione non ha valenze esoteriche (= interiori) profonde? A meno che non ci consideriamo alla stregua di macchine che devono ingurgitare semplice carburante per muoversi, le nostre abitudini culinarie possono dirci molte cose preziose su di noi.

Quando mangiamo, lo facciamo per ragioni che nulla hanno a che vedere con la sola e semplice fame. Mangiamo (o ci precludiamo di mangiare) per dimostrare qualcosa, per esprimere qualcosa, per evitare qualcosa, per controllare qualcosa, per reprimere qualcosa; solo rare volte lo facciamo coscientemente per gioire della vita con gratitudine.

Una storia chassidica ben rappresenta questo concetto:

A un neonato affamato, infreddolito, solo, spaventato o confuso dall’ambiente in cui si trova, la madre offre cibo e conforto. Il bimbo torna a sentirsi bene. E noi adulti che cosa facciamo quando abbiamo fame? Apriamo il frigorifero. Quando abbiamo freddo? Apriamo il frigorifero. Quando ci sentiamo soli? Apriamo il frigorifero. Quando non sappiamo quel che avviene nel mondo? Apriamo il frigorifero. Quando vogliamo ritrovare il contatto con il nostro vero io? Apriamo il frigorifero. È giusto che un neonato cerchi la soddisfazione di tutti questi bisogni nel seno della madre, che è la risposta a tutti i suoi problemi. Ma da adulti non possiamo aspettarci che tutte le soluzioni arrivino attraverso un unico canale. Cercando una soluzione immediata tutti i nostri problemi, abbiamo puntato in un’unica direzione mentre, in realtà, avremmo dovuto imboccarne molte altre.

Nella vita spesso ci sentiamo impotenti, a tal punto che il modo migliore che riusciamo a trovare per comunicare con il mondo è la forma più diretta di scambio con esso: mangiare, o non mangiare. A differenza della respirazione, che è involontaria, l’assunzione di cibo è un atto che ricade interamente sotto il nostro controllo, e diventa quindi una strada preferenziale per esprimere i nostri malesseri più profondi.

Rabbi Nilton Bonder ne La Teoria Della Felicità Gastronomica ci racconta che la “dieta” dei rabbini considera obeso chi avverte una forma di disagio nel rapporto con il cibo, dato che tale disagio rivela inevitabilmente un malessere sul piano fisico, emotivo, sociale o spirituale.

L’obesità è intesa come “pesantezza”, non necessariamente grassezza. Anche una persona anoressica vive infatti la sua vita con una pesantezza insostenibile. Secondo la Tradizione Ebraica il termine “obesità” si riferisce quindi alla pesantezza intesa a diversi livelli, mentre la “dieta” con cui la si cura non è un regime di restrizione alimentare ma un modo per avvicinarsi alla libertà.

Un detto talmudico afferma che si può giudicare il carattere di una persona da “la sua coppa, la sua tasca e la sua collera” (in ebraico è un gioco di parole: kosso kisso e ka’aso): un chiaro riferimento alle tre principali sfere di scambio tra gli esseri umani e l’universo.

La tasca simbolizza il denaro o, più in generale, il nostro rapporto di potere con il mondo. La collera è legata al modo in cui affrontiamo le emozioni negative. La coppa indica invece bevande e cibo o, in senso più lato, l’intera categoria dei nostri scambi materiali con tutto ciò che ci circonda.

Non dimentichiamo che la parola Qabbalah si può tradurre alla lettera con “ricezione”. Satan, ovvero “il male”, è inteso invece come ostacolo alla ricezione. Secondo la tradizione rabbinica, capire il significato di ricevere e riuscire a metterlo concretamente in atto, è un’arte sacra che deve essere esercitata e perfezionata per tutta la vita.

Un’antica leggenda contrappone i due mari di Canaan: il Mar di Galilea, ricco di creature viventi, e il Mar Morto, una distesa di materia inanimata incapace di alimentare qualsiasi forma di vita. A cosa si deve questa differenza?

Il Mar di Galilea accoglie l’acqua che arriva dalle alture del Golan, durante lo scioglimento delle nevi, lasciandola poi fluire libera nel Giordano e infine nel Mar Morto. Ma quest’ultimo mare, anziché liberarla a sua volta, la trattiene, giacché non conosce l’arte di ricevere, e così decreta la sua misera condizione vitale.

Non è quindi possibile ricevere se non si impara a “dare”, sigillando così un rapporto vitale con la natura e l’universo. Ricevere significa quindi stabilire un rapporto con la natura e l’universo in cui viviamo. Se per noi ricevere rimane un fenomeno unilaterale (e la nostra cultura ci inculca questo messaggio non a parole ma attraverso mille esempi diversi), ne consegue che pian piano ci sottrarremo al rapporto di scambio che, in ultima analisi, rappresenta la vita stessa.

Le nostre difficoltà esistenziali possono emergere secondo la Qabbalah in uno dei quattro mondi dell’Albero della Vita: mentale, emotivo e fisico, più quello dell’emanazione che ha a che fare col nostro rapporto col divino. Ma anche se tali difficoltà si creano sui piani elevati, debordano poi inevitabilmente in quello fisico, dove sussiste il nostro rapporto con il cibo.

Sta a noi scegliere se non guardare in questa direzione, considerando l’alimentazione un affare di poco conto e lontano dalle ben più serie questioni spirituali, oppure scegliere di considerarla come uno specchio della nostra realtà più profonda e scoprire nuove cose su noi stessi.

Se scegliamo la seconda strada, potremo iniziare certamente una nuova avventura, tutt’altro che banale…


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