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Nel modo in cui Antonio esponeva l’insegnamento si poteva distinguere chiaramente un denominatore comune valido per tutti e allo stesso tempo moltissime sfaccettature specifiche per ogni persona, che sapientemente sapeva mettere in risalto al momento opportuno in modo che il messaggio potesse arrivare forte e chiaro all’interessato.
Le apparenti contraddizioni che si potevano scorgere in questo senso, seguivano quindi una sofisticata logica di formazione, non diversamente dal lavoro di un dietologo che, pur partendo da norme alimentari basilari, prescrive poi a ciascun paziente una dieta personalizzata.
La metodologia di addestramento di Antonio si adattava quindi alle peculiari esigenze interiori delle singole persone: proporzionalmente alla volontà e alla disponibilità ad apprendere e realizzare l’insegnamento, ne modulava il grado di intensità. Per questo motivo, mentre con qualcuno lo si vedeva chiaramente soprassedere su determinati comportamenti poco dignitosi o su piccole distrazioni, con altri poteva raggiungere un livello di severità elevatissimo.
Vi erano inoltre molti aspetti dell’addestramento che impartiva individualmente e che rimanevano segretamente relegati al legame più intimo con lui, e ai quali nessun altro poteva avere accesso. Questa riservatezza non aveva la funzione di esclusione, ma piuttosto di protezione.
Le esperienze che potremmo convenzionalmente definire mistiche sono per loro natura incomunicabili, e quando ci si ostina a fare dei tentativi in questa direzione si possono conseguire due risultati pericolosi: ottenere l’altrui incomprensione, con conseguente mal interpretazione o addirittura derisione, oppure imprimere una suggestione profonda sull’ascoltatore, vincolandolo alla propria personale modalità di accesso ai piani di coscienza superiori (in realtà differente per ogni individuo).
Antonio era particolarmente attento e severo su questi punti, e metteva in guardia sul fatto che i danni provocati da una tale leggerezza si sarebbero potuti rivelare nel tempo anche irrimediabili. Sapeva benissimo che le esperienze trascendentali non rendono necessariamente migliore una persona, anzi, se mal gestite e non inserite all’interno di un determinato processo, rischiano di illuderla di aver già raggiunto l’unione con l’Assoluto generando tutta una serie di guai che meriterebbero una trattazione a parte.
Per tale ragione, il lavoro di Antonio era prevalentemente rivolto a mettere le persone nelle condizioni di poter sostenere – e soprattutto gestire per finalità creative ed evolutive – il contatto con piani di coscienza più elevati, e in un secondo tempo a poter attingere ad essi autonomamente.
La completezza del suo addestramento poteva quindi espletarsi solo con coloro che facevano tesoro delle sue raccomandazioni e che erano disposti a mettersi fattivamente in gioco senza troppi compromessi. Certamente, non consentiva una spiritualità da salotto in pantofole calde, e non era pensabile relegare il suo insegnamento ad un mero interesse filosofico: per farne realmente esperienza era necessario spingersi oltre i limiti delle proprie reazioni meccaniche, menzogne e atteggiamenti distruttivi, prima riconoscendoli e poi affrontandoli.
Ci stimolava in ogni occasione ad entrare dentro una sfera coscienziale più vasta di quella in cui ci trovavamo, alcune volte dolcemente, altre volte spronando con durezza. Lui si poneva sempre dall’altra parte di una soglia che invitava a superare, e da lì esortava a compiere il difficile passo, come se oltre quel limite si trovasse l’ultimo traguardo della Via.
In questo modo eravamo incentivati ad impegnare tutte le nostre energie per compiere quel passaggio, proprio come l’ultimo sprint finale di una gara. Ma quando la soglia era varcata, il tempo dei festeggiamenti non si protraeva più a lungo di un gesto caloroso, e subito si poneva dietro la soglia successiva, personificando un nuovo ed inatteso stile di addestramento.
Antonio era magneticamente attrattivo per la sua incommensurabile capacità di amare, ma proprio per tale ragione era anche terrificante, perché la sua luce metteva in risalto tutte le ombre di chi gli si poneva di fronte. Non c’era modo di scappare, anche i suoi silenzi riuscivano a toccare nel profondo, così come ogni parola che usava non era mai a caso e richiedeva a volte riflessioni non comuni per superare i significati apparenti.
Non era infatti sua usanza sbrodolarsi in spiegazioni concettuali, e si limitava a fornire i dovuti chiarimenti – a volte anche in chiave simbolica, in modo da saltare il circuito mentale – solo quando veramente necessari e utili.
Ad esempio, un giorno insegnò alcuni esercizi meditativi ad una persona, consigliandole di praticarli al mattino subito dopo il risveglio e alla sera prima di mettersi a letto. Dato che la linea di addestramento tradizionale di Antonio si fondava sul “prima fare, poi capire”, era sua usanza fornire informazioni più approfondite su certe pratiche solo dopo che l’allievo le aveva realmente sperimentate nei modi e nei tempi consigliati, mai prima.
In quell’occasione, la persona in questione si impegnò subito per svolgere al mattino gli esercizi ricevuti, trascurandoli però la sera per pigrizia. Dopo qualche settimana, chiese ad Antonio ulteriori delucidazioni sull’utilità di svolgere tali pratiche nelle prime ore del giorno, ricevendo un riscontro preziosissimo e nuovi consigli. Poi gli chiese similmente a cosa servisse svolgerli anche alla sera, ed Antonio gli rispose prontamente:
“A nulla.”
Potrei traslitterare la sua risposta con queste mie parole:
“Anche se hai omesso il fatto che stai praticando gli esercizi solo il mattino, non pensare che io non me ne accorga, quindi, l’utilità di qualcosa che non viene messo in pratica, è pari a zero, e non servirebbe proprio a niente parlarne.”
Antonio non offriva il pesce ma insegnava a pescare. In altre parole, non aveva interesse a dare risposte esistenziali preconfezionate alle persone ma cercava piuttosto di metterle nelle condizioni di scoprirle dentro se stesse. A volte si aveva come l’impressione che il suo addestramento non fosse propriamente teso ad insegnare cose nuove, bensì a risvegliare conoscenze antiche ed occultate dentro di sé.
Per questo motivo poteva cavalcare le più diverse inclinazioni interiori utilizzando le parole, le analogie o i simboli più opportuni: verso lo spirito guerriero si rivolgeva stimolando ad affrontare le sfide della vita, verso chi manifestava l’inclinazione meditativa incoraggiava lo studio e la contemplazione, negli animi devozionali evocava invece sentimenti di sublime poesia, e così via.
Ma in cosa consisteva fattivamente l’addestramento? La risposta è difficile, se non impossibile, da descrivere senza tradirne il valore. Potrei tuttavia azzardare un tentativo definendolo, prima di tutto, come un pieno ingresso nella sua stessa vita.
Il suo incessante esempio offriva infatti la preziosa possibilità di confrontare il proprio stile di vita con il suo in tutte le faccende quotidiane; oltre al modo in cui insegnava, anche il cibo che mangiava, la relazione con il lavoro, il rapporto di coppia, eccetera. Non vi è infatti nulla della propria esistenza che è possibile trascurare se si vuole procedere lungo la via iniziatica.
La “pratica spirituale” che incarnava Antonio era infatti costante, e si estendeva anche alle azioni più semplici ed apparentemente banali, come l’ordine della sua piccola scrivania, oppure il modo in cui si toglieva le scarpe e il cappotto deponendoli con cura nell’apposito spazio quando rientrava a casa la sera. Ogni suo piccolo gesto rispecchiava i principi della Via e trasudava un significato simbolico mai scontato o casuale.
Si può ben immaginare come la sola frequentazione di Antonio tendeva a mettere in opera una sorta di processo rieducativo radicale sotto tutti i punti di vista.
Ad esempio, se doveva appoggiare due libri sovrapposti uno sull’altro, poneva sempre in alto il libro che rappresentava un valore spirituale più elevato e mai il contrario; per la stessa ragione era letteralmente impossibile vederlo porre distrattamente il portafoglio o il cellulare sopra un testo sacro o sopra un oggetto di valore iniziatico.
Questa meticolosa attenzione non aveva nulla di fanatico, ma rispecchiava piuttosto un ordine interiore profondo e potente. Se è pur vero che la sola imitazione di un atteggiamento esteriore potrebbe rivelarsi inutile o aggiungere addirittura una nuova sovrastruttura fasulla, è però anche vero che la sincera ammirazione sprona verso un’emulazione realmente trasformativa.
Al tempo stesso gentile e delicato, poteva rivelarsi estremamente severo e rigoroso. Era in grado di recitare i ruoli più disparati, davvero libero di apparire come voleva secondo una precisa e sottile linea di addestramento nei confronti delle persone alle quali si rivolgeva.
Totalmente esente dal timore di ricevere o da eventuali interessi di qualsiasi natura, la sua unica preoccupazione era che il messaggio potesse arrivare a toccare le corde più profonde delle persone, offrendo quindi loro una preziosa occasione per avvicinarle di più al loro nucleo essenziale.
Quando sembrava di poterlo conoscere piuttosto bene, ecco che diveniva imprevedibile. Lo si potrebbe definire un artista della Via, nel senso che sapeva come utilizzare ogni circostanza della vita delle persone, anche le situazioni più semplici e banali, come strumento per mettere in luce i loro stessi autoinganni.
A volte poneva l’accento su un aspetto particolare dell’insegnamento, altre volte su un altro; difficilmente seguiva un percorso lineare ma metteva piuttosto in risalto di volta in volta un tassello del puzzle, come per spronare e permettere alle singole persone di ricomporlo con le loro forze, rendendolo così vivo e più intimo.
Richiedeva una sincerità totale, prima di tutto con se stessi e poi con gli altri. Gli bastava infatti un fugace sguardo per radiografare completamente un individuo, cogliendone lati oscuri e potenzialità, e non mancava occasione per stimolare a prenderne coscienza.
Spesso capitava che le persone si avvicinavano ad Antonio per parlargli, per porgli delle domande, per chiedergli un aiuto o anche solo per raccontargli un evento accaduto di particolare rilevanza. La sua reazione poteva essere di calorosa accoglienza, ma poteva anche rivelarsi glaciale, totalmente indifferente, nel caso in cui la persona non si rivolgesse a lui con una reale sincerità di intenti.
Se, ad esempio, stava leggendo un libro e qualcuno gli rivolgeva la parola per perdere tempo o per soddisfare una futile curiosità, poteva continuare a leggerlo come se non si fosse avvicinata a lui neanche una mosca. Questa sua indifferenza creava ovviamente un profondo disagio, ed assolveva perfettamente alla funzione di shock: il “malcapitato” capiva in fretta che nessuna parola vana avrebbe catturato la sua attenzione, e allora smetteva di parlare ed era costretto a chiedersi il motivo di quella reazione.
Proprio grazie a questa condizione emotivamente non ordinaria, la persona riusciva a trovarsi per un attimo di fronte a se stessa e alle proprie maschere, toccando con mano con un bagliore di consapevolezza il falso atteggiamento che la stava muovendo in quel momento. Era sufficiente che la stessa persona prendesse atto del suo meccanismo, calandosi in uno stato interiore più sincero e veritiero, ed ecco che in un attimo Antonio si rivolgeva a lei con tutte le attenzioni del caso, come se fosse appena apparsa davanti a lui.
La sua assenza di paure era forse l’aspetto più meravigliosamente inquietante. Incarnava una forza indescrivibile proveniente da una dimensione molto più profonda e sottile di quella che conosciamo; una forza che teneva comunemente velata agli occhi indiscreti, ma che si percepiva tangibilmente come lo accompagnasse costantemente come una nota musicale di fondo. La sua stessa presenza risvegliava il desiderio di trovare quella sorgente da cui lui stesso riusciva ad attingere.
Ci attirava verso di lui, verso un livello di vita più elevato, e allo stesso tempo ci faceva soffrire terribilmente nel mostrarci la nostra attuale condizione, i nostri limiti, le nostre debolezze, le nostre abitudini lesioniste, il nostro egoismo.
Da una parte lavorava sulla nostra essenza prestando ascolto ai reali e profondi bisogni di ognuno con pazienza e una delicatezza quasi materna, interessandosi alle nostre difficoltà e indicandoci sempre con incredibile esattezza il preciso atto interno necessario per passare al gradino successivo.
Dall’altra parte lavorava sui nostri meccanismi, le nostre oscurità e falsità con pressioni continue e richieste sempre più impegnative, provocando turbamenti di ogni tipo. Nel suo insegnamento non c’era posto per la pietà, solo per un’inondante compassione attiva.
Il principale campo di addestramento – il vero Kurukshetra[1] dentro cui operava Antonio – erano le dinamiche relazionali che si creavano tra le diverse persone. Tutti i nostri limiti, paure, conflitti e contraddizioni interiori, si rivelano pienamente e chiaramente attraverso le incomprensioni e le ostilità che emergono con gli altri.
Tutti gli insegnamenti della tradizione giudaico-cristiana (e potremmo tranquillamene includere anche le altre) si possono sintetizzare nella massima “ama il prossimo tuo come te stesso”; tutto il resto è commento. Antonio insegnava ad amare in molti modi differenti, approfittando di tutte le occasioni, anche quelle più inusuali, spronando le persone a prestare attenzione agli altri come via regia per espandere il proprio nucleo vitale.
Ad esempio, era un segugio infallibile per la maldicenza, che considerava letteralmente un cancro dello spirito, oggigiorno particolarmente esteso e culturalmente accettato se non addirittura incentivato. Oltre ad operare direttamente con fermezza ed estrema severità quando emergevano situazioni che svelavano un problema di questo tipo, riusciva ad educare anche in modi più affilati.
Non vi era infatti modo di sfuggire al suo sguardo penetrante, e non mancava di far notare a certe persone in alcune occasioni che qualcosa di loro rivelava chiaramente il fatto che si erano fatte trascinare di recente in qualche pettegolezzo maligno. Inutile a dirsi, non si è mai sbagliato una volta.
Era indubbiamente un maestro molto esigente, ma non chiedeva mai nulla di più di quello che le persone erano in grado di vedere e di fare. Si rivelava comunque particolarmente misericordioso con coloro che si mettevano sinceramente al servizio degli altri, ed era disposto a chiudere un occhio anche di fronte a scivoloni eclatanti che generalmente non rimanevano nascosti.
Sapeva bene che coloro che imparano ad offrire il loro aiuto al prossimo attivano dentro se stessi qualcosa che li manterrà sempre saldi sulla Via. Potranno forse inciampare, commettere ripetuti errori, ma non perderanno mai la bussola più preziosa. Sarebbe inoltre a tal proposito fuorviante pensare che Antonio valorizzasse un tipo di servizio clamoroso e in grande stile; non era certamente interessato alla grandiosità dell’opera quanto alla spontaneità e purezza dell’atto.
Vi erano poi molti modi in cui Antonio interveniva per spronare le persone ad andare oltre il loro piccolo mondo. Un giorno una coppia che lo frequentava da un po’ di tempo, lo invitò a cena insieme a sua moglie e ad altri due amici. Questa coppia era nota per la scarsa considerazione verso le necessità delle altre persone. A riprova della loro abitudine, in quell’occasione cucinarono infatti una misera padella di pasta, visibilmente inadeguata per soddisfare sei persone.
Antonio quando vide la pietanza sul tavolo si mostrò ingenuamente gioioso e inaspettatamente affamato, rovesciò la padella intera nel suo piatto ed iniziò a mangiare in fretta tutta la pasta con gusto, come a dare per scontato che si trattasse di una sola porzione e che certamente ce ne sarebbe stata altrettanta per ognuno degli altri ospiti. Si potrà ben immaginare lo sguardo attonito e il disagio della coppia, la quale, per superficialità o disinteresse, non aveva calcolato bene le quantità.
Spesso Antonio ci esortava con queste parole:
“Non c’è bisogno di cercare lontano le persone da aiutare; coloro che abbiamo vicino sono per noi la più importante fonte di evoluzione. Bisogna cercare di allungare il limite di impegno un poco alla volta, magari all’inizio per un’ora, un giorno, una settimana, un mese, un anno, poi tre, quattro, e così via. A un certo punto ci dimenticheremo di noi stessi, e a quel punto intorno a noi accadranno miracoli.”
Molte persone, anche alcune che gli sono state vicino per anni, hanno invece sempre cercato di carpire ostinatamente i suoi segreti dentro le arcane conoscenze esoteriche di cui era depositario, trascurando gli aspetti più semplici e diretti del suo insegnamento.
Sono presto giunto alla conclusione che la semplicità spaventa molto di più della complessità, la quale sembra attrarre il nostro istinto mentale così come una donna sensuale può attrarre un naufrago che ha vagato in solitudine per anni.
La semplicità (da non confondersi con la banalità) richiede una grande intelligenza e una grande apertura di cuore, e per queste ragioni è estremamente più impegnativa della complessità, con la quale ci si può invece trastullare per anni senza per questo apportare una concreta trasformazione interiore.
Cercare inoltre di concentrarsi unicamente sull’aspetto concettuale dell’insegnamento serve a poco o nulla perché non porta a farne realmente esperienza, proprio come lo studio approfondito dei principi del nuoto non sarebbe di nessun aiuto concreto a colui che non prova a mettere un piede in acqua. È necessaria dunque l’applicazione pratica, perché quello di cui non si può fare esperienza diretta non è per sua natura attendibile, e quindi per la vera scienza iniziatica non ha nessun valore.
Per la nostra mentalità attuale risulta difficile accettare realmente questi presupposti, tanto è radicata la supervalutazione della comprensione intellettuale. Fortunatamente, anche su questo punto Antonio non lasciava spazio a inutili illusioni.
Tra le tante situazioni che creava, ricordo una mattina in cui si mise ad illustrare tecnicamente e dettagliatamente il modo in cui nasce e si manifesta l’ira, e soprattutto l’assurdità di fare affidamento ad essa per affrontare qualsivoglia problematica nelle relazioni. Tutti eravamo entusiasti e rassicurati dal fatto di aver finalmente compreso il funzionamento di quel tipo di energia “diabolica”, convinti che tale comprensione ci avesse resi per sempre liberi da quel sottile inganno.
Poi, nell’arco di pochi minuti, Antonio cambiò argomento e atmosfera, e come per incanto alcune persone iniziarono a discutere tra loro fino a trascinare tutti quanti in una bolgia di emozioni furibonde e incontrollate. Ed ecco che al culmine del trambusto, Antonio riprese le redini della situazione per far toccare con mano come il dispiegarsi di quello che era appena successo corrispondesse esattamente a quello che lui aveva appena spiegato.
Non è difficile immaginare come questo genere di situazioni creassero profondi shock nelle persone presenti, poste di fronte alla scarsa padronanza di sé e alla facilità con cui si erano illuse di averla già raggiunta.
[1] Il campo di battaglia in cui si svolge tutta la Bhagavad Gita. Esotericamente parlando, è il luogo in cui ogni iniziato è chiamato ad affrontare le sue prove.
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