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La Via è una sola, ma ogni dottrina ha il suo particolare modo di descriverla e rappresentarla, che può variare in relazione al linguaggio, al periodo storico e alla cultura di riferimento. Ciononostante, l’essenza di ogni insegnamento rimane sempre la stessa, dato che è dalla medesima sorgente che i grandi maestri attingono di volta in volta il loro sapere e la loro forza.
Il filo d’oro da sempre alla base di ogni messaggio iniziatico veniva chiamato da Antonio semplicemente Tradizione.
Le religioni rappresentano i tentativi di fissare e codificarne il messaggio ma, così come sarebbe impossibile catturare il vento dentro un barattolo di vetro, allo stesso modo non è possibile chiudere l’insegnamento all’interno di un corpus filosofico senza in qualche modo limitarlo e tradirlo. Per questo motivo le religioni decadono inevitabilmente a livello di regole morali ed assunti dogmatici, perdendo facilmente la loro originaria vitalità e purezza.
Ciò non significa che esse siano inutili o dannose, anzi, di fatto assolvono alla funzione di sostenere le persone che non hanno ancora l’energia sufficiente per provare ad addentrarsi dentro se stesse, e tentano di offrire loro un’ideale di vita più dignitoso e un tantino più elevato del solo approccio biologico e materialista all’esistenza.
Il problema risiede nel fatto che i sistemi religiosi da un lato descrivono l’immagine esteriore dell’essere umano realizzato (come ad esempio il Cristo o il Buddha), dall’altro però non forniscono insegnamenti/strumenti concreti per il raggiungimento del corrispondente stato di coscienza. Il cristianesimo dice che bisogna amare gli altri ma non dice come si fa; il buddismo dice di svuotare la mente ma non dice come si fa; e così via.
Ogni istituzione religiosa dice come bisogna essere, ma quasi nessuna dice cosa bisogna fare concretamente per diventare in quel modo. La semplice volontà non è infatti sufficiente, e ogni sforzo rischia di creare solo forzature destinate presto o tardi a collassare.
Ad ogni modo, all’interno di ogni dottrina spirituale esteriore è contenuto in forma più o meno ermetica un insegnamento più intimo e profondo, che per essere decriptato e attivato necessita di apposite chiavi di lettura fornite dalla trasmissione orale – da bocca a orecchio – che le rende visibili attraverso un processo non solo informativo ma principalmente formativo.
Antonio trasmetteva proprio questo tipo di insegnamento in grado di colmare le lacune presenti nelle religioni convenzionali, rivelando il significato di un cammino che viene generalmente descritto nella sua apparenza e raramente nella sua essenza.
Per tale motivo non voleva e non poteva definire il suo insegnamento con un termine specifico; non aveva nessun copyright da proteggere né tantomeno il desiderio di fondare una nuova religione. Il suo scopo era mostrare un livello di lettura più profondo in grado di cogliere ed evidenziare, anche nelle dottrine spirituali a prima vista molto differenti, la stessa ossatura di sostegno.
Nel fare questo, non snaturava o banalizzava mai i sistemi simbolici utilizzati nel corso dei millenni dalle differenti tradizioni. Confrontandole tra loro, si possono infatti scorgere in alcuni casi anche marcate differenze che potrebbero fare intendere finalità divergenti, ma ciò è vero solo in superficie. In matematica, per ottenere il numero 10 si possono percorrere molte strade (5+5, 2×5, 7+3, eccetera) e sarebbe sciocco pensare che una sia migliore di un’altra, così come sarebbe assurdo invertire o mischiare i numeri delle diverse operazioni senza conoscerne a fondo le regole aritmetiche.
Discorso analogo vale per il messaggio della Tradizione: ogni corrente iniziatica vissuta con serietà e perseveranza conduce a toccare con mano la medesima realtà, mentre mescolare senza un metodo preciso i diversi simboli e concetti – come spesso accade nel movimento New Age – rischia di generare solo una confusione inconcludente.
L’insegnamento della Tradizione non si basa su principi morali o astrazioni metafisiche, né tantomeno su regole logiche con cui incasellare rigidamente l’esistenza: bisogna imparare a rinunciare a queste modalità di comprensione per poter accedere ad un livello più sottile di percezione. Si tratta di una strada che presuppone la conoscenza e lo sviluppo interiore dell’essere umano al di là di qualsiasi limite restrittivo imposto da religioni, filosofie o paradigmi scientifici.
Trattandosi di una sapienza di tipo prevalentemente empirico, l’insegnamento non può essere trasmesso secondo l’abitudinario sistema di istruzione accademico, ma necessita di specifici organismi preposti a tale delicata e impegnativa funzione, che devono prendersi cura dell’individuo in tutti i suoi aspetti vitali senza trascurarne nessuno: fisico, emotivo, intellettuale e spirituale.
Nell’antichità, in diversi luoghi e diverse culture, esistevano apposite scuole che si occupavano di questo, ed erano tenute in grande considerazione dal popolo per il delicato e fondamentale compito che era loro affidato. Pochi erano gli eletti a cui era concesso varcarne la soglia, e non erano certo selezionati in base alla loro ricchezza o tramite test intellettivi, quanto piuttosto per la loro reale “sete interiore”.
Non di rado l’aspirante veniva posto di fronte a prove estreme, come attraversare un covo di serpenti velenosi o un fiume pieno di coccodrilli, dove sarebbe stata quindi la sorte divina a decretare il possibile accesso all’addestramento iniziatico. È facile immaginare come solo pochi individui fossero intenzionati a rischiare la loro vita, disposti anche ad accettare il rischio di perderla pur di poter accedere agli insegnamenti della Via. Poco importa se tali prove fossero veritiere o geniali orchestrazioni: ciò che conta è che la possibilità della morte era reale per l’aspirante, il quale veniva subito posto faccia a faccia con l’autenticità del suo desiderio.
Delle vestigia di quelle antiche scuole sono rimasti oggi solo altisonanti nomi che nascondono spesso sterili associazioni di persone, attente solo alle formalità sceniche e alla divulgazione pappagallesca di pomposi concetti esoterici. Dietro questi teatrini, spesso nessuna o poca sostanza. È ormai tutto un apparire, un ostentare, un inseguire interessi personali velati da propositi divini.
La linfa vitale che un tempo scorreva all’interno delle conoscenze tramandate con tanta serietà e coraggio (non dimentichiamo i secoli bui dell’Inquisizione, dove il solo dubitare dei dogmi cattolici poteva condurre sul rogo), sembra essersi dissolta nel liquame dell’ipocrisia. Ma l’eco di quelle preziose scuole misteriche ha continuato a vivere nell’ombra, come le scintille sotto la cenere, ritirandosi dall’attenzione pubblica per mantenere integro e limpido il proprio operato. Antonio era un testimone vivente del fatto che nulla è in realtà andato perduto.
Mentre nelle epoche passate l’aspirante veniva posto di fronte al rischio di morire, o alla rinuncia di tutti i suoi averi, nell’epoca attuale non è più così, forse perché il nostro tipo di cultura ci ha talmente indeboliti e fiaccati interiormente da renderci quasi impossibile attingere ad una simile audacia. Antonio richiedeva principalmente una cosa: cercare di porre con onestà e sincerità i principi della Via al primo posto nella propria vita.
Non dovrebbe esserci nulla, nessuna scusa, per venire meno a questa priorità, perché sono i compromessi le prime trappole sul cammino. Non si può pensare di cambiare la propria esistenza nella speranza di svegliarsi un mattino e trovare una bacchetta magica che in un sol gesto possa trasformare tutto. Piuttosto, è necessario mettere in discussione i personali punti di vista e le proprie abitudini.
Generalmente, chi si avvicina alla Via non è contento né soddisfatto di quello che vive, e cerca qualcosa di più, qualcosa che forse ancora non riesce a prefigurarsi ma che sente in potenza come una reale possibilità. Bene, occorre comprendere fin da subito che il modo più sicuro per continuare a vivere la vita nello stesso modo senza scoprire nulla di nuovo, è continuare a fare sempre le stesse cose.
L’insegnamento della Tradizione incoraggia per certi aspetti ad uno stile di vita apparentemente ordinario, in quanto prescrive di adeguarsi (entro certi limiti) agli usi e costumi del luogo in cui si vive, senza ostentare od imporre una visione differente. Allo stesso tempo però, stimola verso un approccio all’esistenza estremamente controtendenza sia nei significati che nelle decisioni vitali.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare infatti, l’Iniziato non è colui che vaga per il mondo con l’abito bianco e il sorriso beato, al quale la vita concede regali a profusione e gloria e onore. Non esiste immagine più fuorviante. L’Iniziato è colui che decide di affrontare a viso scoperto la sua follia, perché non c’è termine più adeguato per descrivere il modo in cui viviamo.
E in cosa consiste questa pazzia? Nel continuare a perseguire bendati ed ostinati un atteggiamento irresponsabile verso l’esistenza, che genera inevitabilmente sofferenza per se stessi e per gli altri. Il nesso causale non è superficialmente visibile, e per questo motivo le persone sono anche capaci di accelerare a tutta velocità nella strada che le conduce dritte dentro il baratro, ma attraverso gli opportuni esercizi di osservazione, presto la connessione semina-raccolta diventa una drammatica realtà tutt’altro che filosofica.
Il messaggio della Tradizione è semplicissimo nella sua essenza: l’essere umano è nato per essere felice, non ha bisogno delle afflizioni e delle angosce, né tantomeno di avere paura della vita. Ma per poter conquistare questo stato di libertà interiore deve fare inizialmente affidamento ad un insegnamento autentico. Il desiderio di essere felici, infatti, non basta: serve uno strumento atto a far acquisire nuove facoltà di sviluppo, eliminando (in alcuni casi sostituendo) i simboli interiori che danno origine ed alimentano le tendenze comportamentali distruttive.
Diffidenza, invidia, maldicenza, avidità e orgoglio, sono alcune tra le macine legate al collo dell’essere umano che lo trascinano gradatamente verso uno stato di disperazione, ed infine verso una vera e propria morte dell’anima. La sofferenza interiore viene considerata dalla Tradizione come il sintomo di una malattia spirituale che può essere diagnosticata e poi curata. La guarigione conduce verso l’intima sorgente della gioia.
Il “processo terapeutico” coincide con la quintessenza di ogni tradizione spirituale. Antonio, come un geniale mastro distillatore, riusciva ad estrapolarlo da qualsiasi testo sacro per renderlo evidente e sperimentabile.
Quando si riferiva a certi aspetti di questo insegnamento, soleva in alcuni casi utilizzare il nome generico di Metodo, sottolineandone in questo modo un tipo di approccio estremamente pratico e rigoroso, per certi versi scientifico, per affrontare il problema della conoscenza di sé. Di fatto, il Metodo rappresenta il primo livello di un addestramento estremamente sopraffino, e mette in moto un processo di purificazione interiore necessario per ripristinare dentro l’essere umano un reale stato di salute ed integrità molto difficile da definire ma certamente sperimentabile in prima persona.
L’unico modo per iniziare a farsi un’idea dell’ampia portata di questo insegnamento, è cercare prima di tutto di capire a fondo quali sono le premesse patologiche sulle quali è fondata la nostra struttura interiore: l’idea di possedere già un centro integro e stabile, l’illusione di conoscere le reali intenzioni che ci muovono, l’incapacità di metterci in discussione, il pensare che le nostre parole (e soprattutto le nostre azioni) non creino conseguenze nel circuito della vita.
La stessa cultura nella quale siamo cresciuti ha impresso dentro di noi un radicato simbolo che porta a identificare la felicità come il potere di ottenere cose, soldi, persone, attenzioni e così via, in un vortice insaziabile. Non c’è traccia di reale libertà in questa rincorsa, ma solo fanatica idolatria di un’idea di successo inconsapevolmente imposta dalla società.
Se socchiudiamo un attimo gli occhi e proviamo ad evocare un’immagine di persona di successo senza pensarci troppo, difficilmente prenderà forma la figura di un santo illuminato, ma più probabilmente il primo impulso rimanderà ad un uomo (difficilmente una donna) ricco, abbronzato, circondato da belle ragazze, sicuro di se stesso e anche un po’ arrogante, senza scrupoli negli affari e con una buona dose di cinismo che gli consente di non badare a chi gli sta intorno per andare dritto e sicuro per la sua strada. In pratica, dal punto di vista della Via, un suicida interiore.
Inutile prenderci in giro: dobbiamo fare i conti con il fatto che la nostra cultura ha fatto e continua a fare un ottimo lavoro perpetuando i suoi simboli esistenziali.
Anche le scienze umanistiche sono oggi arrivate alla conclusione che ogni degrado psichico, e conseguentemente fisico, è fondamentalmente basato su tre errori epistemologici di base: affidarsi e confidare nella propria obiettività, intraprendere azioni che ignorano la circolarità della vita e, infine, il tentativo di controllare il sistema a cui apparteniamo. Risulta quindi evidente che non esiste essere umano al mondo, salvo rarissime eccezioni, che possa dirsi realmente sano.
Il problema è che gli stessi scienziati, gli stessi terapeuti, sono da questo punto di vista malati cronici, e per tale ragione non possono che veicolare tutti i limiti che incarnano.
Alcuni atteggiamenti interiori verso la vita, come ad esempio l’attaccamento morboso verso la macchina, la possessività verso la propria o il proprio partner, verso i propri figli, eccetera, non sono valutati come limiti di cui potersi liberare per salire ad un livello di vita più evoluto, ma sono considerati normali e, anzi, sono incoraggiati dal nostro modello culturale; poco importa se per il mantenimento e la difesa di tali attaccamenti ci consentiamo di perpetuare ingiustizie intorno a noi, agendo egoisticamente solo ed esclusivamente per i propri interessi o capricci personali.
La stessa psicologia può aiutare una persona ad adattarsi all’ambiente sociale in cui vive (condividendone di fatto la follia), ma non ha gli strumenti per condurre la coscienza oltre i limiti del pensiero dialettico ordinario.
Fino a quando non entriamo in contatto con strumenti attraverso i quali poterci realmente osservare e conoscere, non ci possiamo rendere conto che la nostra struttura psichica è composta da componenti considerate ordinariamente normali e che invece ci rendono fondamentalmente infelici.
La maggior parte della nostra vita si fonda infatti sulla paura: paura di ammalarsi, paura di morire, paura di perdere gli amici, parenti, figli, di perdere il lavoro, di non avere soldi a sufficienza, paura di essere incapaci di fare una determinata cosa, di non essere accettati, di essere abbandonati… ne abbiamo di tutti i tipi, di tutti i colori.
Così come l’albero si riconosce dai suoi frutti, gli effetti più evidenti della patologia umana si evincono dai comportamenti distruttivi che non tengono conto degli altri, e spesso neanche di se stessi. Per tale motivo è stata trasmessa una regola fondamentale che in qualche modo introduce e fa da sfondo al Metodo. Questa regola può essere racchiusa in quattro domande che occorre porsi ogni qual volta la vita ci chiama ad agire:
Questa azione mi reca beneficio?
Questa azione reca beneficio ad altri?
Questa azione mi reca danno?
Questa azione reca danno ad altri?
Se le prime due risposte sono positive e le altre due sono negative, allora con buona probabilità l’azione sarà impeccabile, cioè pulita, integra e dignitosa. Diversamente da quello che si potrebbe superficialmente pensare, l’impeccabilità non ha una finalità di tipo etico, ma riguarda una questione prevalentemente energetica, nel senso che mette nelle condizioni di non accumulare debiti nei confronti della vita e consente di acquisire un tipo di forza interiore particolarmente intensa e sopraffina.
Antonio assicurava come non sia assolutamente vero che l’essere umano abbia bisogno di più energia per vivere meglio, ma che invece abbia semplicemente bisogno di imparare a non dissiparla, cosa che fa puntualmente da quando si alza dal letto al mattino fino a quando si rimette a dormire.
Di fatto, il primo livello dell’insegnamento tradizionale corrisponde ad un processo di purificazione interiore che non si attua nello scimmiottare l’apertura di qualche chakra o nell’invocazione di qualsivoglia entità angelica, ma proprio nel toccare con mano il modo in cui noi interagiamo con la vita che ci circonda e, ovviamente, imparare a fare qualcosa di diverso.
Per il Metodo è inizialmente il nostro rapporto con il prossimo a rappresentare il problema più urgente: quando in un’azione non intervengono altre persone, le quattro domande citate possono infatti essere in prima istanza abbandonate.
Questa regola impone inoltre di riflettere in modo non banale sul significato dei concetti di beneficio e danno, dato che dovrebbero essere in questo contesto depurati da ogni richiamo a morali religiose o convenzioni sociali. Generalmente identifichiamo il bene come qualcosa in grado di evocare l’approvazione dell’ambito culturale cui apparteniamo.
Nella prospettiva della Tradizione, “bene” è invece ciò che ci mantiene all’interno del processo evolutivo che abbiamo individuato e scelto, e per tale ragione sottintende anche una sorta di creatività e crescita. Non è infatti da escludere che molte azioni che potrebbero non essere consentite dalla convenzione ordinaria riflettano in realtà l’impeccabilità verso un bene più grande, più genuino e veritiero.
Non occorre insomma guardare troppo lontano per capire che le quattro domande impongono un livello di attenzione e onestà interiore particolarmente alti, per non cadere nella trappola di continuare ad agire esattamente come prima, adattando semplicemente le risposte nel modo più comodo.
Se ripenso anche solo alle prime sfide che la vita mi pose di fronte subito dopo aver iniziato a mettermi in discussione, ricordo di aver dovuto affrontare prove tragicomiche che mi costarono grandissima fatica. La semplice decisione di diventare vegetariano scatenò l’indignazione e l’ostruzione da parte di tutti i miei familiari nello stesso modo (forse anche di più) in cui li avrebbe indignati sapermi tossicodipendente; per non parlare delle minacce affettive ricevute per la mia decisione di non partecipare più alle cerimonie religiose cattoliche, dalle quali preferivo astenermi per ragioni di coerenza.
Se avessi interpretato in modo buonista le rimostranze parentali sarei certamente ritornato sui miei passi con la motivazione di non voler ferire i loro sentimenti, e così facendo avrei pesantemente tradito una certa dignità interiore che stavo faticosamente conquistando.
Antonio non si stancava mai di ripetere e di far toccare con mano come la ricerca metodica dell’impeccabilità sia l’unica strada in grado di consentire una veloce e sicura espansione della coscienza. Senza tale presupposto, ogni eventuale esperienza di “illuminazione” non potrebbe perdurare e molto probabilmente non porterebbe a nulla di buono. Il pensiero perbenista ordinario non riesce ad accettare questa realtà, eppure la si può riscontrare in molte sfaccettature dell’essere umano.
Ad esempio, la passione dell’innamoramento può condurre verso il sentimento dell’amore, ma è importantissimo non confondere le due cose: il primo impulso è solo la scintilla che può accendere un fuoco meraviglioso e utile a scaldare e illuminare, ma può anche incendiare in modo incontrollato una foresta con tutti i danni che ne conseguono. Un innamorato infatti, in virtù di ciò che si è acceso dentro il suo cuore, può trascendere tutti i limiti che pensava invalicabili fino a quel momento, e dare anche la vita per l’oggetto del suo amore, ma potrebbe altresì compiere i gesti più distruttivi e deplorevoli, mosso dalla gelosia e dal senso di possesso.
Su questo punto le persone si illudono senza ritegno, misurando loro stesse con le proprie buone intenzioni, pensando quindi tra sé e sé che se avessero più energia (più soldi, più tempo libero, più potere, eccetera) la userebbero certamente per aiutare gli altri e per migliorare il mondo intorno a sé. È necessario aprire gli occhi: se alle persone venisse improvvisamente regalata più energia, la userebbero certamente per dare libero sfogo – consapevolmente o meno – ai propri impulsi più bassi, difficilmente compatibili con la propria e altrui felicità.
Potrebbe anche non piacere, ma per il Metodo “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”, e si potrebbe aggiungere che, al contrario, “la via del paradiso è lastrica di azioni impeccabili”. È necessario partire da un caposaldo: noi non conosciamo le nostre intenzioni più reali e profonde, e preferiamo confrontarci continuamente con i buoni propositi.
Il nostro modus operandi consueto è simile a quello di una persona che, di fronte alla visione di un bambino denutrito del Terzo Mondo, si sente il cuore pervaso da un sentimento di ingiustizia e compassione, sciupando magari anche qualche lacrima per l’occasione, nulla di più. Un atteggiamento di questo tipo corrisponde solo a soffiare immagini inutili, un ottimo modo per continuare ad imbiancare il proprio sepolcro.
Il vero Iniziato non si racconterebbe mai la favola di poter aiutare quel bambino inondandolo di pensieri o preghiere amorevoli, ma cercherebbe di focalizzare bene il problema e lotterebbe concretamente per fare la sua parte, fosse anche solo mettere da parte qualche soldino al giorno per devolverli poi in beneficienza. In altre parole, il vero Iniziato sa che si deve sporcare le mani per procedere nella Via, e così facendo certamente scoprirà nuovi orizzonti.
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