Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare sua moglie, il suo schiavo, la sua schiava, il suo bue, il suo asino e nulla di ciò che appartiene al tuo prossimo.
Es 20.14
Un lungo e ricco percorso sulla strada della Dieci Parole ci ha condotti finalmente all’ultima delle Parole che, solenne come le altre, ci incita a non desiderare, non desiderare nulla di ciò che appartiene al proprio prossimo.
Inesorabile il verdetto dopo una brevissima e sincera indagine personale: ognuno di noi ha almeno una volta, nella propria vita, desiderato ardentemente qualcosa del prossimo, considerandolo fortunato per quello che possiede. E, forti di questo pensiero, abbiamo lasciato andare la fantasia in merito a quanto saremmo più felici se solo potessimo realizzare il sogno di avere, di ottenere, di conseguire, di riuscire…
Già, perché il desiderio insano di ciò che possiede il prossimo può diventare cupidigia, una sorta di bramosia sfrenata verso un oggetto che appartiene ad altri e che a noi è negato; da ciò scaturisce l’invidia, associata al dispiacere per il non possesso, quando anche all’astio rivolto verso i fortunati posseditori. “Morire dal desiderio” così come “morire dalla voglia” sono espressioni emblematiche della nostra lingua, che rimandano in modo netto a immagini evocative della sofferenza che può dominarci quando, ciò che non abbiamo, ci deteriora.
Se cerchiamo di indagare alla radice, l’essere umano sembra possedere un desiderio che ha l’aspetto di una brama senza fine che pare non poter essere mai saziata. Nella sua inconsapevolezza di se stesso e della sua origine, egli passa continuamente di desiderio in desiderio ritenendo che la materia, ovvero l’unica cosa che riesce a vedere e toccare, sia in grado di soddisfarlo. Ma come può qualcosa di finito soddisfare un desiderio che nella sua radice è infinito?
Volendo usare una moderna metafora, la struggente sete dell’uomo non può essere saziata dalla Coca Cola… Egli brama in realtà di dissetarsi a ben altra Fonte, che è la sua stessa origine, ma di questo non è più consapevole ed ha smarrito la strada per arrivarci. Circondato da milioni di cangianti ma fievoli luci, cerca di afferrarle una dopo l’altra senza mettersi alla ricerca della lanterna da cui tutte hanno origine.

Questa lanterna, questa luce, non può essere trovata in ciò che è esteriore. Vano sarà per l’essere umano il ricercarla all’esterno di sé.
Se egli inizierà realmente ad occuparsi della propria origine, inizierà finalmente il viaggio per cui è venuto al mondo. Occuparsi della propria vita significa scoprire la propria unicità, la propria unità e la propria missione particolare.
A tal proposito ci vengono in aiuto le parole del Baal Sheem Tov, grande Maestro del 1700, fondatore del chassidismo:
Ognuno si comporti conformemente al grado che è il suo. Se non avviene così e uno si impadronisce del grado del compagno e si lascia sfuggire il proprio, non realizzerà né l’uno, né l’altro. (1)
Conoscere se stessi è il punto sacro di partenza! Indagare le nostre origini è scoprire gradualmente il vero sé che può mettersi in gioco nella realizzazione dei desideri che prenderanno forma in una concreta progettualità. Ciò però non può prescindere dal capire chi siamo.
La Decima Parola, dunque, mentre ci chiede di non desiderare cosa possiede il prossimo, ci invita fortemente a ritornare a noi stessi. Il cammino attraverso il quale l’essere umano potrà ricongiungersi con la propria origine, soddisfando lo struggente ed apparentemente insoddisfabile desiderio dal quale è pervaso, gli può essere indicato unicamente dalla conoscenza del proprio essere.
Vani saranno gli sforzi di essere felici per chi sposta all’esterno l’oggetto del proprio desiderio senza scoprire quello più profondo ed autentico: conoscersi, incontrare se stessi, realizzare la propria reale natura ricongiungendosi alla propria origine.
(1) Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, 1990, pag. 29.
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