L’Alleanza Sacra | L’addio (cap. 11)

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Una sera d’estate Antonio fece convocare tutti i suoi più intimi allievi e, sedendosi sacralmente sopra la sua solita sedia, iniziò a parlare con inconsueta, lenta, solennità. Le persone erano incredule, le sue parole giunsero del tutto inaspettate. Si stava congedando da questa vita.

“Il mio tempo è scaduto. Un maestro deve sapersi mettere da parte quando scorge nei discepoli il bisogno di proseguire autonomamente.

Ora dovrete realmente imparare a camminare con le vostre gambe.”

Il tono della sua voce non era turbato ma delicatamente attento a non allarmarci oltremodo. Tutti i partecipanti erano come attoniti, ma nessuno ebbe il coraggio di fare domande, covando forse la speranza che dietro quell’annuncio si potesse nascondere solo uno stratagemma per stimolarci a non dare la sua presenza per scontata.

Dopo pochi giorni il corpo di Antonio si spense, in circostanze ancora oggi misteriose. Se n’era veramente andato, lasciando tantissimi figli e figlie di cui si era sempre occupato con meticolosa cura e affetto.

A onore del vero, aveva già preannunciato qualche mese prima la sua imminente dipartita, solo che lo aveva fatto con uno stile particolarmente ironico, tramite un accenno rapido e improvviso, per poi ridacchiare tra sé e sé. Nessuno gli aveva dato particolare peso, e in quell’occasione lasciò semplicemente un punto di domanda aperto sulle sue parole:

“Mi raccomando, non dimenticate che le vacanze estive si stanno ormai avvicinando, quindi come ogni anno potete iniziare a pensare ad un argomento che vi piacerebbe approfondire tutti insieme. 

Per la verità, quest’anno avrei io una proposta: il Bardo Thodol [1]… e io so già chi farà il morto…”

Vi sono molti maestri degni di sacro rispetto che hanno vissuto in mezzo a noi e che hanno lasciato testimonianze della loro grandezza. Antonio era uno di questi, eppure, per me, emanava qualcosa di ancora più grande, perché potevo vedere in azione la sua maestosa dignità e non soltanto immaginarla.

Il fatto che avesse sempre rifiutato qualsiasi favoritismo, qualsiasi condizione di vita privilegiata che lo potesse in qualche modo differenziare dalle persone comuni, era già di per se stesso, ai miei occhi, motivo di commovente ammirazione.

Con la sua vita ha dimostrato come sia possibile ergersi al di fuori del mondo senza distaccarsi in modo altezzoso da esso, senza nascondersi dietro titoli o riconoscimenti altisonanti, senza isolarsi in un lontano monastero o sulla cima innevata di qualche montagna; anzi, condividendo con noi tutte le gioie e tutte le sofferenze senza mai risparmiarsi.

La sua grandezza non è mai stata per lui una giustificazione per non occuparsi delle necessità quotidiane (gestione del lavoro, della famiglia e della casa), ma al contrario ha dimostrato come una certa levatura spirituale possa, anzi debba, essere direttamente proporzionale ad un concreto senso di responsabilità.

Il suo funerale è stato forse il giorno che più di tutti può evocare la sua immensa quanto enigmatica figura. Nella sala principale della sua abitazione, un modesto alloggio in centro città ricoperto di libri su quasi tutte le pareti, intervallati da oggetti e dipinti simbolici relativi a differenti tradizioni spirituali, giaceva la sua salma. Per tre giorni rimase lì visibile per ricevere gli omaggi e l’ultimo saluto di chi lo conosceva. Il via vai di gente era ininterrotto.

Gran parte delle persone che gli fecero visita non si conoscevano tra loro, né avrebbero mai immaginato di incontrarsi in un alloggio così insolito e in un’occasione come quella. Ebrei, musulmani, cristiani, bahá’í, induisti, buddhisti, ma anche atei e scienziati, tutti riuniti sotto lo stesso tetto per rendere omaggio a colui che, in forme diverse, aveva rappresentato per ciascuno di loro una guida, un maestro, un amico prezioso.

Ognuno di loro venne a portare un dono, un pensiero, a volte condividendolo a voce alta, a volte silenziosamente. La sacralità era palpabile, commovente, dignitosa, regale, scevra dalle etichette di qualsivoglia religione.

Uno dei miei ricordi più nitidi è il momento in cui entrò nella stanza la persona che ricopriva il ruolo di capo ufficio sul posto di lavoro di Antonio. Il viso impallidito, stupefatto, si guardava attorno incredulo, sussurrando poi quasi mortificato all’orecchio del vicino:

“Conosco Antonio da almeno dieci anni… per me è sempre stato quell’ometto silenzioso sempre occupato dietro al computer… possibile che io non mi sia mai accorto di altro?”

Ricordo anche chiaramente le parole pronunciate pubblicamente in quell’occasione da una persona che lo aveva seguito assiduamente per diversi anni nel passato:

“Questo momento è certamente più difficile per noi che per lui. Chi, come me, ha avuto la fortuna di vederlo in azione, sa bene che Antonio era libero di attraversare senza limiti le soglie dei diversi piani di esistenza, e sapeva come infrangere le barriere del tempo e dello spazio. Quindi l’unica cosa che ha perso oggi è uno dei suoi tanti abiti fisici.

Non ho mai conosciuto un uomo del genere in vita mia e dubito che riuscirò ad incontrare nuovamente qualcuno del suo livello.”

Per un maestro della sua levatura, nascere, vivere e morire è come per noi svegliarci al mattino, trascorrere la giornata e poi addormentarci la sera, con la chiara memoria di tutti i giorni passati e con la consapevolezza dei giorni futuri che verranno. È ovvio che da una prospettiva di questo tipo – non vincolata ad una sola esistenza su questo pianeta – cambia radicalmente l’approccio alla vita e tutti i significati ad essa correlati.

Ecco perché Antonio era capace di vivere il presente con grande intensità e, allo stesso tempo, con evidente distacco, libero di uscire dalla scena di questo mondo con la stessa leggerezza che si potrebbe avere nel riprendere la via di casa dopo una semplice giornata di lavoro.

Molte persone consideravano infatti il suo stile di vita completamente alieno ed innaturale, ma questo giudizio si fondava solo sulla paura di compiere lo sforzo di invertire anche solo per un attimo il punto di vista, immaginando quanto potesse piuttosto apparire ristretto ed insensato il proprio ordinario modo di vivere ai suoi occhi.

Non venne ovviamente officiata una messa funebre in suo onore, ma ogni partecipante recitò le proprie preghiere ed espresse il suo saluto in un susseguirsi ordinato, elegante e commovente, come se in quell’occasione si fossero tutti sentiti parte di una più grande forma di spiritualità universale che non teneva conto delle diversità e delle contrapposizioni religiose e culturali.

Al termine di quella insolita veglia funebre partì un lento e lungo corteo per accompagnare il feretro nel cimitero monumentale della città. Venne seppellito a terra, in una piccola area verde ricca di fiori e di cipressi. Sulla lapide non venne posta nessuna foto, ma solo questa frase scolpita sul granito nero, quasi a rievocare lo stile delle iscrizioni sugli antichi sarcofagi egizi di basalto nero:

 

Un cuore immenso,

una mente espansa

al servizio dell’evoluzione.

 

In effetti non si sarebbero potute usare altre parole per evocare in estrema sintesi la sua grandezza, pari soltanto alla sua umiltà e semplicità d’animo.

Dopo la sua scomparsa, i suoi allievi più stretti attraversarono un periodo di profondo sconforto e smarrimento. La domanda che probabilmente tutti si ponevano silenziosamente era:

“Perché non ha lasciato indicazioni precise su chi avrebbe dovuto prendere il suo posto?”

Se era pur vero che c’erano alcune persone con maggiore esperienza e preparazione, era anche vero che nessuno emanava anche solo lontanamente quel tipo di autorità e presenza cui eravamo ormai abituati. Troppo difficile ripiegare il proprio consenso verso qualcun altro, senza il rischio di investirlo di aspettative insostenibili.

Tutto ciò era reso ancora più difficile dal fatto che Antonio non indicò mai esplicitamente il nome di un suo possibile depositario, limitandosi ad evidenziare a volte le potenzialità e le acquisizioni di una persona, a volte di un’altra o di un’altra ancora.

Nessuno riusciva quindi a capire perché Antonio uscì di scena consapevolmente senza lasciare un copione da seguire. Il risultato fu che in breve tempo la sua famiglia spirituale si scisse in numerosi gruppi differenti, cosa che lui stesso predisse in più occasioni quando metteva in luce la scarsa amicizia tra le persone.

Contrariamente da quello che le spiritualità annacquate di oggi affermano, la vera amicizia era considerata da lui come il sentimento umano più elevato, il più vicino al concetto di amore divino. Chi non impara ad essere amico, dimostrando lealtà, schiettezza e predisposizione all’aiuto di un altro, ha ben poche speranze (per non dire nessuna) di addentrarsi nei reami più profondi della Via.

Proprio in ragione del fatto che Antonio aveva sempre incoraggiato a prendersi cura gli uni degli altri, i miei occhi giovani e ingenui di allora non potevano credere alle dinamiche che si crearono dopo soli pochi mesi dalla sua scomparsa.

La realtà non si rivelò così romantica come le mie aspettative utopistiche avrebbero desiderato: proseguire tutti insieme in un solidale spirito di fratellanza.

Dopo alcune malcelate tensioni dovute a vecchi rancori e a nuove invidie, una lacerante lotta di potere creò infine insanabili scismi. I punti chiave dell’insegnamento di Antonio caddero presto nell’ombra perché troppo scomodi, ed ogni fazione in gioco preferì invece enfatizzare e barricarsi dietro i concetti più altisonanti – i più interpretabili – come riprova delle proprie posizioni e del proprio senso di giustizia.

Io rimasi vicino alle persone con le quali mi sentivo più in sintonia e nelle quali scorgevo il desiderio più tenace di rimanere fedeli al cuore dell’insegnamento di Antonio. Trascorsi alcuni anni però, diverse vicissitudini iniziarono a far vacillare questa sicurezza alla quale mi ero aggrappato. Nelle persone in cui avevo riposto tutta la mia fiducia e alle quali avevo messo a disposizione la maggior parte delle mie energie e del mio tempo libero, iniziai ad intravedere alcuni segni di evidenti contraddizioni.

Quando tali incoerenze raggiunsero dei livelli pericolosi per le stesse persone e per gli altri, trovai la forza di parlarne apertamente, dando scioccamente per scontato che la mia sincerità sarebbe stata apprezzata, così come Antonio aveva dato prova in tante occasioni.

In modo del tutto inaspettato, mi ritrovai invece a dover fare i conti con una reazione a dir poco indispettita, cosa che in breve tempo obbligò addirittura me e la mia compagna ad allontanarci. Pur sconcertati e profondamente dispiaciuti, potevamo perlomeno consolarci dalla certezza interiore di aver semplicemente lottato per amor di verità e giustizia.

Negli anni a seguire, rimasti improvvisamente soli, iniziammo una serie di peregrinazioni in lungo e in largo per mettere alla prova fino a che punto eravamo riusciti ad assimilare e rendere vivo dentro di noi l’insegnamento. Oltre a diverse esperienze dentro vari ambiti spirituali, poco per volta riuscimmo anche a rincontrare molte tra le persone che avevano in passato frequentato Antonio.

In quelle occasioni scoprimmo che alcune di esse si erano gradatamente perse nelle faccende ordinare, nascoste dietro il “tanto senza Antonio non è più possibile proseguire” (una bestemmia proprio al suo addestramento); altre avevano cercato goffamente di imitarlo, con risultati ridicoli e disastrosi; altre ancora avevano letteralmente cercato di scardinarne il ricordo dalla loro coscienza, in modo da poter ritornare interiormente indisturbati alla loro vita di prima, oppure creandosi una personale e più comoda visione della Via.

Sono pochi coloro che ho avuto il piacere di vedere ancora all’opera, intenti a mettere continuamente a frutto gli insegnamenti. Ma la cosa che mi ha sorpreso di più, è il vedere come proprio queste poche persone – tra le quali mi includo – siano state oggetto di attacchi più o meno diretti da parte di tutte le altre sopracitate.

Timoroso, invidioso, orgoglioso e rancoroso è purtroppo l’animo umano, e avere avuto la possibilità di ricevere un insegnamento per ergersi al di sopra di tutto questo, è certamente una rara e preziosa occasione che non coincide però con la garanzia di successo.

Solo dopo aver compiuto tutte queste esperienze e incontri, nei quali confesso di aver spesso recitato anche una certa ingenuità per poter meglio conoscere e mettere alla prova i miei interlocutori, ho avuto modo di comprendere ed apprezzare ancora più in profondità la finezza dell’addestramento di Antonio, espresso anche nello stile in cui è uscito di scena.

Osservando il passato da un’ottica più distante, più distaccata e più matura, non posso oggi non riconoscere come la sua presenza alimentasse silenziosamente dentro ciascuna delle persone che lo frequentava una certa inerzia d’animo. Al di là di tutti i suoi continui stimoli, una parte di noi tendeva inevitabilmente ad adagiarsi in un fuorviante senso di sicurezza.

Essere allievi di Antonio implicava un impegno non ordinario, ma sotto la sua ala ci si sentiva protetti da tutto e tutti. Non vi era angolo vitale in cui Antonio non potesse intervenire per soccorrere le persone a lui vicine. Senza mai sostituirsi alla libertà personale di nessuno, indicava sempre la strada corretta ed offriva i giusti strumenti per risolvere qualsiasi problematica: salute, lavoro, famiglia, eccetera.

Ciascuno di noi poteva dunque avvertire la protezione di Antonio su di sé. Lui ne era chiaramente consapevole, ma era anche consapevole del fatto che questo tipo di sostegno induceva le persone a non assumersi in modo completo la responsabilità sulla propria vita: “Tanto c’è Antonio che ci pensa.” 

Se fino ad un certo punto è indispensabile poter fare affidamento su qualcuno in grado di garantirci una certa serenità esteriore, tale da poterci permettere di concentrare le nostre poche energie verso un lavoro interiore, arriva prima o poi il momento in cui è necessario misurarsi più concretamente, spostandosi dalla piscina per provare a nuotare in mare aperto.

A distanza di tempo dunque, e con grandissima fatica, non posso non riconoscere che Antonio, con la sua morte, ha portato a compimento un ulteriore livello di addestramento, e che probabilmente senza questo suo ultimo gesto non si sarebbero potuti sperimentare ed integrare molti dei suoi insegnamenti. I semi del suo lavoro sono germogliati a distanza di anni, e continuano tutt’ora a rivelare incredibili sfumature molto più sofisticate di quanto avrei mai potuto immaginare.

Antonio è stato un regale rappresentante della Tradizione. È probabile supporre che non sia il solo e che non sarà l’ultimo, ma la trasmissione di determinati livelli di coscienza non avviene nel modo in cui due atleti si possono passare una staffetta o attraverso un atto notarile.

Vi erano molte parti del suo insegnamento che poteva trasferire solo a coloro che lo lasciavano realmente entrare, e non mi riferisco ad un invito formale in un luogo fisico; parlo piuttosto di uno stato interiore al di fuori di questo spazio e del trascorrere del tempo, ma su questo tema non mi è dato aggiungere altro. Certamente, in tale mistero è racchiusa una parte della risposta alla fatidica domanda: perché Antonio non aveva nominato ufficialmente nessun depositario del suo insegnamento, limitandosi ad incentivare ogni suo allievo a prendere in mano la propria vita?

Il maestro di riferimento in una scuola tradizionale non esprime autorità ma autorevolezza, e quando per qualsiasi ragione deve abbandonare il suo ruolo, saranno coloro che hanno studiato ed applicato il suo insegnamento a divenirne diretti responsabili, con la consapevolezza che non potranno insegnare quello che il loro maestro ha detto, ma solo quello che hanno realmente praticato e realizzato. Quando le condizioni saranno nuovamente mature, un altro maestro apparirà. Dove e come non è mai dato di saperlo in anticipo.

Per lungo tempo ho malinconicamente rimpianto Antonio temendo che il suo insegnamento potesse perdersi pian piano come un bellissimo fiore che appassisce, e le diverse vicissitudini che ho fin qui accennato, certamente non mi tranquillizzavano in questo senso. Ora mi rendo però conto che l’insegnamento non potrà mai perire ma, nella peggiore delle ipotesi, continuare a scorrere come un fiume sotterraneo in attesa di poter riaffiorare di nuovo.

Se anche in coloro che lo hanno conosciuto le parole e il ricordo della vita di Antonio dovessero presto o tardi dissolversi nel mare burrascoso della memoria, ciò di cui era portavoce continuerà a pulsare come un battito di cuore silenzioso. Chi riuscirà a porsi sinceramente e attentamente in ascolto, potrà nuovamente attingere a quella stessa forza.

“L’insegnamento”, disse una volta Antonio, “continuerà anche dopo la mia morte, per chi lo vorrà”. Ha mantenuto le sue parole. Ciò che di più prezioso ha infatti lasciato in eredità è la possibilità di sintonizzarsi con una determinata frequenza per entrare in contatto con quella forza che lui, e altri maestri prima di lui, hanno incarnato e reso evidente. Potrà sembrare fantascienza, romanticismo, illusione, ma chi lo ha sperimentato almeno una volta sa bene di cosa si tratta.

Non di rado qualcuno mi ha chiesto per quale motivo mi sento in diritto di parlare di Antonio e di ricordare il suo insegnamento ogni volta che si presenta l’occasione. Questa domanda è più che lecita, e colgo questa occasione per precisare che in effetti io non lo sento come un diritto, ma piuttosto come un dovere.

L’ultima volta che lo vidi, mentre gli ponevo delicatamente la giacca sulle spalle prima di salutarlo, gli giurai che avrei sempre lottato per mantenere viva la sua luce, fosse anche solo con la forza di tenere acceso un piccolo lumino.

Questa promessa mi accompagnerà probabilmente fino all’ultimo giorno della mia vita e, se così sarà, non si tratterà certo di un’esistenza buttata, non più di quella di un innamorato che si ritrova a percorrere numerose miglia a piedi solo per poter giungere al cospetto della sua amata e portarle in dono una semplice rosa.

D’altronde, la Via, è una storia d’amore.

FINE

[ ringraziamenti ed epilogo ]


[1] Il Libro Tibetano dei Morti.

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