Preferiamo non fare nomi (ognuno valuterà personalmente), ma molti personaggi contemporanei o della storia più recente, si spacciano come maestri appartenenti alla tradizione spirituale Advaita. Più specificatamente, sono considerati come i rappresentanti di quella che viene chiamata Neo-Advaita.
Abbiamo già toccato questo argomento in due post in passato: Nisargadatta, l’Advaita e l’immondizia e Advaita Vedanta comoda e per tutti!, ed oggi proviamo a riprendere il discorso mettendo in luce altre sfumature.
Letteralmente, la parola sanscrita Advaita significata “non ci sono due cose”, riferendosi alla non dualità della realtà, ad un’unica verità, che è sempre stata e sempre sarà. Per tale motivo risulta già di per se stesso un po’ ambiguo parlare di Neo-Advaita, come a distinguere una vecchia verità da una nuova verità…
Ad ogni modo, è comprensibile il fatto che sia emersa la necessità di dare una nuova definizione, dal momento che tali neo-maestri presentano la loro corrente spirituale in una forma a volte difficilmente riconducibile – per chi la conosce bene – alla tradizione originaria.
Non è nostra intenzione ipotizzare se tali figure siano o meno in cattiva fede (laddove ci sono interessi economici non abbiamo dubbi in merito). D’altronde, chiunque si sia posto le fatidiche domande esistenziali ed abbia seriamente cercato delle risposte, ha il diritto di condividere le sue esperienze, ma la questione si fa molto più delicata e pericolosa se una tale condivisione si fonda sul lasciare intendere di aver raggiunto l’Assoluto e di parlare per Suo conto.
Proviamo allora a mettere brevemente in luce le più importanti differenze tra la tradizione originale e quella “neo”, facendo riferimento ai testi e alle testimonianze del lignaggio di Shankara, tra cui possiamo identificare in Ramana Maharshi forse l’ultimo esponente universalmente riconosciuto. Molte persone che lo hanno incontrato si sono fatte spacciare come sue depositarie dopo la sua morte, ma incontrare un santo non fa di noi dei santi, nemmeno se ripetiamo a pappagallo le stesse parole.
Innanzitutto, l’Advaita delinea una visione della vita che non può comunque fare a meno di utilizzare un linguaggio che è pur sempre e necessariamente dualistico, in quanto concepito per l’uso nel mondo in cui viviamo, e si riferisce esplicitamente al livello fenomenale – vyavahara – in cui di fatto esistono oggetti e persone, di cui alcuni diventano ricercatori e seguono un cammino verso la realizzazione del Sé.
Gli insegnanti neo-advaiti cercano invece di negare tutto questo ed insistono solo sul concetto di realtà (di cui non si può parlare) e sul concetto illusione, in cui rientra praticamente tutto quello che viviamo: non c’è nessuno, né ricercatore, né agente, né sentiero. Non c’è nulla che si possa fare per condurre un ricercatore verso qualcosa che già esiste qui ed ora, occorre semplicemente “prenderne atto”, aiutati magari da qualche noioso e lungo ginepraio mentale sul come far tacere la mente…
L’insegnamento dell’Advaita tradizionale è invece graduale. Comincia da dove crediamo di essere. Riconosce un’identificazione con l’organismo corpo-mente: desideri e paure, eccetera, ed ha lo scopo di educare e indebolire questa identificazione gradualmente, affidandosi a certe pratiche spirituali e ad una varietà di stratagemmi atti ridurre il dominio di un ego padroneggiante.
Al contrario, la Neo-Advaita cerca di forzare la presunta verità non dualistica in una mente non preparata fin dall’inizio (negando proprio l’esistenza stessa di una mente) non offrendo alcun processo di discriminazione graduale o di sviluppo logico. L’ego disorientato si trova a dover accettare che non esiste realmente ma, di fatto, rimane forte come prima, generando ancora più tensioni nervose per via una dissonanza cognitiva che non si riesce a risolvere e che non si può condividere con nessuno.
Una delle metafore usate nell’Advaita classica riguardo all’illuminazione, è quella del sogno. Se durante un nostro sogno apparisse qualcuno a dirci che stiamo solo sognando, spiegandoci magari che cos’è lo stato di veglia, non ci servirebbe a nulla e continueremmo a sognare, anche se affascinati dalle sue parole. Così è per la Neo-Advaita: un maestro simile che parla di come le cose stanno “realmente” (che non c’è una persona, non c’è ricercatore e nemmeno la liberazione) non farà che peggiorare la condizione esistenziale, perché l’esperienza quotidiana malgrado tutto continua e chiaramente confuta le sue affermazioni.
Al contrario, gli insegnamenti e le pratiche dell’Advaita tradizionale funzionano nell’ambito della nostra esperienza ordinaria scardinando gradualmente, per esempio, tutte le immagini con cui ci identifichiamo, a partire dai significati personali cui ci aggrappiamo anche solo dal punto di vista della realtà fenomenica. Tutte le pratiche proposte potranno anche essere espedienti artificiali, che fanno parte dell’illusione, però funzionano, lenti ma sicuri, nell’allentare la presa dei nostri malintesi interiori.
La Neo-Advaita è invece indubbiamente più attrattiva, poiché usa il linguaggio della società moderna ed evita termini sanscriti e simbolismi antichi che possono confondere le menti occidentali, ed è più comoda, poiché si fa portavoce del fatto che non si può far nulla per rimuovere l’ignoranza:
“Non c’è nulla da fare, perché non c’è nulla da scoprire, poiché questo è quello che è qui ed ora.”
Possiamo finalmente smettere di cercare e fare quello che ci va, anche stare sul divano a guardare il soffitto tutto il giorno. Non c’è nessun bisogno di badare al rapporto con il nostro prossimo. Non c’è bisogno di imparare il sanscrito, di passare una vita (o molte vite) a studiare con un maestro. Non c’è bisogno di mettersi in discussione. Acquistare maggiori conoscenze non serve a nulla se non a creare impedimenti, in quanto si illude l’ego a credere di fare progressi. Tutto va bene così com’è. Dobbiamo solo accettarlo.
L’Advaita tradizionale, al contrario, rivendica il fatto che l’ignoranza può essere eliminata dalla conoscenza, e assicura che la mente può e deve essere preparata a questa conoscenza, attraverso specifiche pratiche (come la Bhakti, lo Yoga o la riduzione della forza dell’ego nell’azione disinteressata del Karma Yoga). Certamente, non riconosce queste pratiche come il fine ma come un mezzo comunque indispensabile, senza il quale nessuna parola illuminata potrà mai risvegliare nessuno.
Il pericolo della Neo-Advaita è quindi l’evidente spazio che lascia ai ciarlatani che, avendo letto o ascoltato gli elementi fondamentali o “descrizioni” della realtà, possono escogitare alcune abitudini espressive e poi farsi pubblicità nel circuito dello spiritual business. Ammesso che siano buoni attori/oratori, è possibile guadagnarsi la vita ingannando in tal modo i ricercatori, senza mai far notare la loro vera mancanza di conoscenza in materia o il fatto che non siano più vicini ad una realizzazione di quanto lo siano i loro discepoli.
L’inevitabile conseguenza è che gli stessi discepoli possono illudersi e credere di aver ottenuto un tipo di realizzazione, quando di fatto, quello che è successo (nella più rosea delle ipotesi, già di per se stessa piuttosto rara) è che hanno sciolto qualche problema psicologico che rendeva loro difficile la vita. Naturalmente questo non è per niente un male, ma non è certamente da mettere sullo stesso piano di ciò che la tradizione intende per liberazione o illuminazione. Eppure, queste persone si sentiranno un giorno autorizzate a proclamarsi anche se stesse come guide, poiché sono convinte di aver raggiunto una sorta di realizzazione.
L’uso del linguaggio della non dualità (per esempio, evitando la parola “io”) non può essere una garanzia che l’ego del conferenziere sia morto. Infatti l’ego può adattarsi al non-riferimento a se stessi pensando di essere realizzato mentre tutti gli altri non lo sono. Nel medesimo modo, non c’è necessità di evitare l’uso della parola “io” se c’è assenza di ego.
Questo non significa che questi pericoli non esistano anche nell’Advaita, ma chi ha passato tanti anni a studiare le scritture, frequentando ambienti tradizionali e ricercatori seri, non si farà attrarre facilmente dalla fama e dai soldi al punto tale da vendere insegnamenti ed improvvisarsi maestro. Vari millenni di insegnamenti tradizionali hanno messo l’accento sul valore della preparazione atta ad acquisire la conoscenza della verità, e mettono bene in luce gli inganni più classici e pericolosi sul sentiero.
La necessità di dare una certa impronta alla propria vita, di fare scelte anche difficili, di integrare una certa pratica quotidiana, di approfondire certi testi in modo non banale, di rendersi disponibili ad una supervisione esterna per accogliere sempre nuovi stimoli di riflessione, sono tutti elementi non richiesti e considerati non necessari per gli incontri con un maestro della Neo-Advaita.
Questa cosa fa ovviamente molto molto gola a tutti coloro che hanno voglia di sentirsi realizzati senza doversi mettere in fondo realmente in discussione, quando in realtà l’unica cosa che potranno realizzare in fretta è come smettere di lavorare per vivere sulla pelle, sulla coscienza e sul portafoglio degli altri. In una parola, in modo vergognoso.
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