La volontà di guarire del paziente non troppo paziente

Essere un paziente è sempre un momento difficile per ognuno di noi. Quando si cade ammalati, qualunque sia la malattia e il suo livello di gravità, si deve affrontare la sofferenza fisica, la sospensione dei propri progetti e delle nostre abitudini. Ci si sente vulnerabili e anche un po’ soli, perché il dolore fisico è un genere di sofferenza che non si può condividere.

In alcuni casi ci prende la paura per sintomi a noi sconosciuti, che si affrontano per la prima volta, o la preoccupazione per il buon esito della cura. Si tratta di una condizione di disagio, che ognuno vorrebbe finisse il più in fretta possibile. Nel momento in cui entriamo fisicamente e psicologicamente nel mondo della medicina, di qualunque genere essa sia, diventiamo immediatamente un paziente.

E il termine paziente evoca la rassegnazione di chi, essendo malato, non può fare altro che attendere di venir curato, nei tempi e nei modi previsti dal medico e dal tipo di medicina cui si è affidato.

La fiducia nel proprio medico è certamente un elemento importante della cura: chi di noi si metterebbe nelle mani di uno specialista che consideriamo poco affidabile o scarsamente competente?

Però anche una totale passività, come suggerirebbe la definizione di paziente, forse non è il modo migliore per affrontare la malattia, e questo una gran parte di noi l’ha già sperimentato.

Che si sia trattato dell’esperienza di un lieve disturbo, oppure di qualcosa di più grave che ha portato alla necessità di un ricovero ospedaliero, spesso si può costatare come la vicinanza delle persone care, l’ottimismo e la voglia di guarire, come minimo affrettino il processo di guarigione.

Probabilmente saremmo guariti lo stesso grazie alle cure, ma di certo più lentamente, o avremmo sopportato peggio il dolore e la convalescenza. Per alcuni l’atteggiamento positivo e di fiducia può fare addirittura la differenza per il conseguimento di una piena guarigione.

Nel suo libro “La volontà di guarire”, ad esempio, Norman Cousins racconta della sua difficile esperienza verificatesi negli anni ’60, quando cadde ammalato dopo un viaggio in Unione Sovietica. Al ritorno ebbe febbre e forti dolori, accompagnati da gravi difficoltà di movimento, che lo portarono presto a essere ricoverato in un ospedale.

I medici gli diagnosticarono una spondilite anchilosante, malattia che causa lo scollamento del tessuto connettivo e che lascia poche speranze di guarigione. Quando gli dissero che aveva una probabilità su 500 di cavarsela pensò che, se voleva rientrare fra quei pochissimi, doveva darsi da fare e non affidarsi alla fortuna.

paziente né passivo, affrontò la sofferenza e la disperazione, determinato a guarire a tutti i costi. Cercò innanzi tutto di capire cosa lo fece ammalare, visto che sua moglie, che l’accompagnò nel viaggio, fu esposta agli stessi agenti tossici ritenuti dai medici all’origine del suo male, senza però ammalarsi.

Qualcosa lo aveva indebolito e lui riuscì a capirne la causa: lo stress del lavoro da diplomatico che dovette affrontare le difficoltà che aveva vissuto durante il viaggio in Unione Sovietica, tutte cause legate allo scatenarsi della sua malattia.

Fra le altre cose, i forti dolori gli impedivano di dormire ma, in accordo con il suo medico di fiducia, amico di una vita, dovette sospendere i sonniferi, in quanto avevano pesanti effetti collaterali avversi alla sua malattia.

Cousins ben presto fece tuttavia una scoperta che cambiò la sua vita: notò che quando riusciva a ridere a crepapelle per qualche minuto, i suoi dolori si attenuavano fino a farlo dormire almeno un paio d’ore. Cousins si rese conto inoltre che il buonumore, oltre a favorire il sonno, contribuiva al miglioramento delle sue condizioni di salute, verificate tramite frequenti analisi del sangue.

E trovò logico questo fatto: se lo stress e le preoccupazioni avevano contribuito a farlo ammalare, risate e buonumore potevano aiutarlo a guarire! Siamo tutti abbastanza consapevoli che depressione ed emozioni negative contribuiscono a farci ammalare, ma non teniamo quasi mai in considerazione quanto il buonumore le emozioni positive possano essere d’aiuto in una guarigione.

Cousins decise allora di auto-somministrarsi delle grandi dosi di buonumore: uscì dall’ospedale, si chiuse in un albergo, si fece portare un proiettore, film comici e candid camera satiriche, e ogni giorno dava il via alla sua somministrazione di emozioni positive, per poi andare a dormire.

Fu parte attiva e s’informò con spirito critico anche sulla natura dei rimedi che gli erano somministrati. In questo modo, una volta che le aveva ben comprese, accettate e condivise, egli fu in grado di dare il massimo consenso alle varie cure.

Senza addentrarci nei numerosi e interessanti dettagli presenti nel libro, basti dire che Cousins guarì in barba a ogni previsione nefasta. Questo non avvenne per caso ma grazie alla scelta che fece di assumersi la responsabilità della sua guarigione.

Divenne famoso come “colui che guarì a forza di ridere”, il che era vero solo in parte, ma la sua esperienza aiutò altri malati ad affrontare situazioni difficili simili alla sua.

Come dimostra il caso di Cousins, l’essere umano può intervenire in maniera a volte risolutiva nel suo processo di guarigione, dando al potere terapeutico della natura, conosciuto fin dai tempi antichi, la possibilità di entrare in azione. Anche questo tema è trattato in modo chiaro e brillante nel libro di Cousins, di cui v’invitiamo alla lettura su questo link: http://bit.ly/n_cousins.

Volendo approfondire il concetto, può essere utile riflettere inoltre su ciò che causa la malattia dal punto di vista delle più antiche tradizioni spirituali. Nilton Bonder, un rabbino della corrente chassidica ebraica, ben affronta il tema nel suo libro “La teoria della felicità gastronomica” (su un nostro recente articolo, a questo link).

Egli spiega come la malattia che si esprime nel corpo, e quindi sul piano fisico, nasce da interruzioni di flusso che si formano, oltre che sul piano fisico, anche su quello emotivo, mentale e spirituale, ovvero su tutti e quattro i piani dell’esistenza. Con chiarezza ed eleganza, Bonder illustra come la nostra salute dipende dal continuo flusso di scambio che ci unisce al Mondo.

Tale scambio avviene specialmente attraverso le altre persone con le quali condividiamo ogni giorno sentimenti, pensieri, beni, lavoro, cibo, emozioni e, a volte, anche i momenti di preghiera. Più nello specifico, per ogni piano dell’esistenza il flusso si esprime in modo diverso: in quello fisico abbiamo il cibo, il lavoro e l’attività fisica, per quello emotivo ci sono le relazioni, i sentimenti e la sessualità, per quello mentale le belle conversazioni, le buone letture e lo scrivere, mentre per quello spirituale c’è la meditazione e la preghiera.

Il tutto è definito da Bonder come “il grande banchetto della vita”, cui siamo invitati a partecipare per la nostra gioia e quella degli altri. Ogni parte di noi dev’essere nutrita ed è altrettanto importante che contribuiamo a nutrire gli altri in un meraviglio continuo flusso di scambio fra dare e ricevere.

Gli effetti dell’interruzione di flusso sono sempre negativi e si avvertono quando, in qualche modo, smettiamo di “banchettare”.

È difficile comprendere come, ad esempio, un’interruzione di flusso sul piano mentale possa generare una malattia sul piano fisico, ma anche questo lo possiamo sperimentare direttamente; ogni volta che, a causa dei nostri comportamenti, o per via di circostanze esterne, ci separiamo dal Mondo che ci nutre e che è nutrito da noi e rimaniamo isolati, non stiamo per niente bene.

Semplificando, secondo Bonder, i comportamenti unitivi e di scambio generano gioia e salute, mentre quelli separativi e isolanti generano tristezza e malattia.

Se vogliamo trarre ispirazione dall’esempio di Cousins e dalle parole di Bonder, quando cadiamo ammalati, oltre a cercare di essere dei pazienti quanto più possibile attivi e partecipi in ogni aspetto della nostra guarigione, possiamo anche riflettere per osservare e comprendere se qualche nostro comportamento separativo, o qualche circostanza fuori dal nostro controllo, ha contribuito a una interruzione di flusso potenzialmente all’origine della nostra malattia.

In ogni caso, indipendentemente dalle nostre convinzioni, riflettere non potrà che farci bene, aiutarci magari a non ritrovarci in futuro nella stessa situazione e, se siamo proprio fortunati, ad aiutare anche qualcun altro a rimettere in moto il flusso benefico tra se stesso e la vita che lo circonda, proprio come hanno fatto i personaggi citati.

Buona ripresa di flusso a tutti!


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Una risposta a "La volontà di guarire del paziente non troppo paziente"

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  1. Ottima riflessione, aggiungo che il termine paziente l’ho sempre associato non tanto al patire, soffrire, quanto a sopportare nel senso di saper attendere, un tempo di riflessione dove ciò che non è di primaria importanza viene escluso dai nostri pensieri per lasciar posto all’essenziale.
    La domanda che pongo spesso le persone che si affidano alle mie cure è “vuoi guarire?” Perché, come in tanti hanno già detto, un terapeuta può solo aiutare a guarire, ecco la necessità di chi è affetto da una malattia di essere parte attiva e la necessità di pazientare.
    Talvolta la salute del corpo non ritorna, ma credo che la guarigione avvenga sempre.

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