Le dieci piaghe d’Egitto “rivelate”

È assodato che alcune immagini e alcuni simboli appartenenti e provenienti da svariate Tradizioni, siano entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Dal punto di vista occidentale tale sorte è senz’altro toccata alle dieci piaghe d’Egitto contenute nel Libro dell’Esodo (dalla Bibbia).

I suoi simboli sono stati mediati soprattutto dai mass media, ed in quella forma si sono fatti strada e si sono fissati in maniera più o meno stabile nella coscienza di ognuno. Nel migliore dei casi essi sono stati interpretati dalla lettura, talvolta  superficiale e poco approfondita, che di essi generalmente se ne dà in un contesto religioso.

Tale sorte è stata forse risparmiata solo a chi respira Tradizioni ancora vive, che approfondiscono il senso delle Scritture andando oltre il banale senso letterale. È questo il caso della più profonda corrente Ebraica.

Per tale Tradizione infatti, lo studio e l’approfondimento delle Scritture rappresentano due capisaldi irrinunciabili della pratica quotidiana. Nello specifico, esistono fondamentalmente quattro livelli di lettura e approfondimento del Testo Sacro: il primo livello è quello letterale (peshat), il secondo livello è quello allegorico (remez) a cui fa seguito la modalità analogico (derash). L’ultimo livello interpretativo è quello mistico (sod).

Quando si cerca di leggere il Testo Sacro, sforzandosi di andare oltre al livello letterale, i significati che emergono restituiscono allo stesso la dignità e la profondità che una lettura frettolosa e povera di approcci simbolici ha occultato.

Quanto alle piaghe, prima di tutto è necessario tenere conto del contesto: il racconto è ambientato in Egitto (in ebraico Mitzraym, luogo stretto) che simbolicamente rappresenta la condizione di schiavitù, limitazione, infelicità e mancanza di consapevolezza in cui versa l’essere umano ordinariamente.

Il popolo di Israele, che vive in Egitto in stato di schiavitù, rappresenta l’Iniziato, l’insieme degli Io che potenzialmente potrebbero lottare compiendo un lavoro interiore per ritrovare una perduta unità e liberarsi dalla condizione in cui si trovano, per poi attraversare il Mar Rosso incamminandosi verso la Terra Promessa.

Il popolo egiziano, per contro, rappresenta invece quelle parti della personalità che non intendono svegliarsi e che rimangono soggette all’influenza del Faraone, che identifica l’ego con la sua tendenza a mettersi al centro di tutto, considerarsi un dio ed opporsi al cambiamento che trascende le abitudini e le illusorie certezze.

Mosè, scintilla divina e voce della coscienza, intende riunire e risvegliare il popolo di Israele sollecitandolo a più riprese, anche quando sembra ormai persa ogni speranza. Il suo compito è  infatti quello di stimolare il popolo anche quando la resistenza al cambiamento si fa pressante e lo stato di schiavitù sembra addirittura allettante.

È questo il paradosso che spesso chi si è incamminato su di un percorso di ricerca interiore si trova a vivere: laddove la sicurezza di quanto si è, per poco che sia, rappresenta una maggiore attrattiva rispetto allo sforzo necessario per andare oltre i propri limiti.

Infatti Israele rimpiangerà spesso le cipolle che mangiava in terra d’Egitto; questo perché l’ignoto spaventa, così come il rinunciare ai propri modi di essere non evolutivi, nonostante siano causa di sofferenza e creino costantemente problemi nelle relazioni con gli altri.

Le dieci piaghe si inseriscono in questo contesto come sfide/difficoltà che la vita pone sul cammino di ricerca di ognuno per insegnare ad affrontare e superare i propri limiti.

Se la difficoltà viene vista e vissuta come una disgrazia di cui lamentarsi senza comprensione, rimarrà tale senza produrre  altro che un rinforzo dello status quo. Se invece questa viene accolta non come un inciampo ma come una possibilità di crescita e comprensione, allora ne emergerà la sua potenzialità evolutiva.

Tra i due differenti modi di approcciarsi alle piaghe, il popolo egiziano e il Faraone (che, come detto, simboleggiano le parti egoiche dell’essere umano e tutto vogliono anziché abdicare in favore di un ipotetico “altro”) vivono le piaghe nel primo modo, quindi con la pesantezza di una disgrazia che allerta temporaneamente, mentre sperano possa passare presto per smettere di occuparsene il prima possibile.

Presupposto di un cammino di ricerca e di liberazione è però il rendersi conto di essere schiavi. Questa non è una cosa scontata. Se si è tutto sommato soddisfatti di se stessi e della vita che si vive, perché cercare di liberarsene o di cambiarla?

Ecco che la Tradizione ebraica individua tre parole chiave per delineare la condizione di Israele in Egitto: afflizione, schiavitù e senso di alienazione dato dall’essere stranieri (Es 15,13).

Con ciò si vuole intendere che è necessario prima di tutto rendersi conto di essere afflitti, cioè di non essere soddisfatti della propria condizione. Tale constatazione porterà alla consapevolezza del proprio stato di schiavitù e quindi al sorgere del desiderio di volersi emancipare da questa condizione, raggiungendo uno stato di pienezza e completezza in cui non vi sia la sensazione di essere stranieri in terra straniera.

A partire da queste tre parole chiave è possibile individuare, nello sviluppo del racconto,  uno schema che suddivide le dieci piaghe in tre triadi a cui si aggiunge l’ultima. Ogni singola triade, inoltre, risponde ad una domanda che appartiene all’Iniziato in quella fase specifica del suo percorso.

La prima triade di piaghe risponde alla domanda: come ci si libera dall’afflizione?

Per iniziare a rispondere a questa domanda il libro dell’Esodo presenta la prima piaga: il sangue. Questo è per la Tradizione ebraica una delle manifestazioni del Sacro. Il Nilo diviene dunque sangue. L’acqua è l’elemento più pervasivo esistente in natura e dunque simbolicamente la piaga va letta come un invito a rendersi conto che il Sacro, qualcosa che va oltre la vita ordinaria intesa meccanicamente, è dappertutto.

L’Iniziato apprende così che esiste un orizzonte diverso da quello quotidiano e che è possibile conoscerlo. Con la piaga delle rane, che escono fuori dalle acque, simbolo dell’ignoto e non-conscio, si giunge dunque alla necessità di intraprendere un percorso di conoscenza interiore. Per fare questo è necessario abbandonare le proprie convinzioni e la loro venerazione, simboleggiata dalla terza piaga, quella dei pidocchi.

La successiva triade di piaghe intende rispondere alla domanda: come ci si libera dalla schiavitù?

La piaga degli insetti (mescolanza in ebraico) sottolinea la necessità di rendere sempre più forte questo intento separandosi dal modo di vivere caotico e dissipativo. In altri termini si può anche intendere che occorre che il gruppo di Io che intende svegliarsi si renda sempre più forte e per farlo deve separarsi dagli Io che invece intendono mantenere lo status quo.

Così la piaga della peste rinforza tale messaggio e direzione indicando la necessità di interrompere il nutrimento delle parti non evolutive della personalità, laddove difficilmente ci si potrà risvegliare se si indugia nelle abitudini, nelle emozioni negative e negli atteggiamenti separativi.

La resistenza al lavoro interiore deve cessare. Vedere le proprie parti non evolutive e i propri meccanismi è senz’altro scomodo e difficile e l’ego oppone le sue vive rimostranze. La via di uscita da questo empasse sta nell’accogliere il fuoco del lavoro interiore senza resistenze; se non succede subentra la piaga delle ulcere: il lavoro interiore non “digerito” si ferma in superficie creando fastidiose e dolorose bruciature.

L’ultima triade risponde alla domanda: come si cessa di essere stranieri?

La piaga della grandine è strettamente collegata alla sua precedente. Il racconto biblico insiste infatti sul fatto che la grandine contenesse al suo interno il fuoco. Questo è il fuoco del lavoro interiore che rompe e frantuma le zolle improduttive delle proprie convinzioni ed importanza personali.

La piaga delle locuste (la cui radice in ebraico significa numerosi) intende sottolineare come sia indispensabile a questo punto del cammino prendere seriamente in considerazione i propri numerosi meccanismi interiori distruttivi, consapevoli del fatto che è unicamente volendoli guardare e conoscere che è possibile costruire qualcosa di diverso per andare oltre al mondo delimitato da essi.

Ciò è indicato anche dal fatto che la radice del termine ebraico locuste contiene anche in sé il significato di finestra e luce che può schiarire la nebbia interiore e la difficoltà ad attraversarla.

La piaga delle tenebre pone l’accento su tale urgenza. È unicamente scendendo nelle proprie tenebre ed esplorando la propria ombra oscura che è possibile pervenire alla luce. Ogni viaggio iniziatico, compresa la Divina Commedia di Dante Alighieri, enuncia più o meno velatamente l’imprescindibilità di tale fase.

L’ultima piaga, la morte del primogenito, simboleggia la rinuncia alla pretesa dell’ego di sopravvivere; distruggere il proprio primogenito interiore significa infatti negarsi un’eredità che rende immortali, un’immortalità che riguarda esclusivamente la vita esteriore.

L’Esodo invita espressamente ad inseguire l’immortalità dell’anima liberandosi del primogenito per cui, già nella Genesi, il diritto dei primogeniti nella successione viene scavalcato dal diritto del figlio minore: per questo Isacco soppianta Ismaele, Giacobbe Esaù, Rachele Lia e Giuseppe Giuda in una sorta di tradimento evolutivo della tradizione e dei significati di cui questa è portatrice.

Ogni singola piaga è dunque un momento del percorso dell’Iniziato, caratterizzato da qualcosa in comune, cioè il desiderio di qualcosa di diverso che nasce dal credere che esista un Progetto di ordine superiore da scoprire, celato ai nostri occhi.

Trovare le chiavi di lettura di quanto ci accade è la sfida che crea la giusta spinta propulsiva verso un nuovo senso e significato nella vita di tutti i giorni.

Ovviamente, la lettura simbolica delle dieci piaghe, non si esaurisce in questo piccolo post, ma c’è molto, molto di più da poter approfondire…

2 risposte a "Le dieci piaghe d’Egitto “rivelate”"

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