L’Alleanza Sacra | Un essere fuori dal comune (cap. 2)

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Fin dal primo incontro mi resi conto che, contrariamente alla mia idea iniziale, Antonio non era colui che aveva insegnato a Lorenzo le arti marziali praticate da quest’ultimo in palestra, per quanto non si possa ovviamente escludere una sottile connessione tra gli insegnamenti più sottili sulla natura umana e le antiche discipline di difesa personale.

Nel gruppo di persone che frequentava assiduamente Antonio, ognuna faceva riferimento ad una specifica corrente spirituale e la approfondiva sia tramite lo studio che la pratica: vi erano quindi apprendisti della tradizione induista yogica, ebraico qabbalistica, celtica druidica, cinese taoista, eccetera.

Mi colpì moltissimo vedere tutti questi sistemi spirituali riuniti sotto un unico tetto, e certamente in un modo nettamente differente dai soliti ambienti di impronta new age, dove generalmente si fa un miscuglio annacquato e improvvisato di tanti concetti presi a prestito un po’ qua e un po’ là.

Antonio aveva l’incredibile capacità di offrire un insegnamento basilare come denominatore comune per tutti, e allo stesso tempo addestrare ciascuno nella sua propria peculiare disciplina, che poteva essere scelta liberamente in base alle affinità e propensioni personali.

Per esempio Lorenzo, tra le altre cose, stava imparando sotto la supervisione di Antonio il Tai Chi Chuan tradizionale, una disciplina spirituale di tutt’altra natura dell’arte marziale che proponeva invece in palestra (come attività lavorativa), e in modo molto chiaro ed onesto non cercò mai di confondere le due cose.

Durante uno dei miei primi giorni di frequentazione a quelli che erano, di fatto, dei veri e propri satsang [1], Antonio mi disse che solo in futuro, quando lui non ci sarebbe più stato, avrei compreso appieno e in profondità l’immenso valore della sua trasmissione. Così fu.

Dopo circa quattro anni da quel primo incontro, in seguito alla sua morte, intrapresi come un ronin giapponese un viaggio di sperimentazione attraverso diverse scuole esoteriche ed eminenti figure spirituali. Sentivo il bisogno di mettere alla prova ciò che avevo visto e appreso durante gli intensissimi anni al suo fianco. Sono proprio state queste peregrinazioni a farmi prendere coscienza dell’inestimabile valore dell’insegnamento di Antonio.

Anche la scienza iniziatica più completa con cui sono entrato in contatto si è infine rivelata solo un pallido riflesso della profondità e ricchezza umana che ho potuto respirare grazie a lui. Non voglio ovviamente affermare che non vi siano altri luoghi e altri esseri in mezzo a noi in grado di incarnare la sua stessa sapienza e forza, ma posso certamente testimoniare che moltissime “offerte spirituali” sono di gran lunga molto fragili e lontane dai titoli altisonanti con cui si dipingono.

In un’epoca tanto caotica e contradditoria come la nostra, Antonio aveva la capacità di rimettere ordine e donare chiarezza al senso di ogni pratica spirituale nella sua essenza, mettendo in luce quell’indeteriorabile filo d’oro che le accumuna tutte attraverso un linguaggio e una modalità comprensibili alla nostra mentalità attuale. Depurando le differenti dottrine da tutte quelle astrazioni fantasiose e fuorvianti che rischiano di renderle vie di fuga fantasiose, piuttosto che reali e concreti strumenti di evoluzione, riusciva a ricollocarle nella loro corretta e originaria dimensione.

Ad esempio, lo Yoga non è un sistema di contorsioni fisiche da palestra, così come viene insegnato oggi in Occidente, ma è primariamente un metodo offerto per trasformare un luogo in un posto felice. Quando si fa del proprio meglio per tenere unita una famiglia (non necessariamente nel senso parentale del termine), questo è praticare Yoga, il cui significato sanscrito è proprio “unione”. Il medesimo concetto lo si ritrova nell’ebraismo, dove il focolare domestico è il tempio principale. I pellerossa parlavano di “cerchio sacro” quando volevano intendere il prezioso legame che teneva unite le persone con il medesimo intento.

Nessuna tradizione autentica si sarebbe potuta mantenere viva e tramandare nel tempo senza il veicolo di una solida fratellanza. D’altronde, come si potrebbe ambire all’unione con l’Assoluto senza prima riuscire ad unirsi con le persone con cui condividiamo la nostra vita? Ecco perché quando qualcuno si avvicinava ad Antonio manifestando il desiderio di cercare il contatto con la divinità, lui rispondeva spesso: “prima di tutto, impara ad allacciarti le scarpe”.

Quando l’ho conosciuto, confesso che gli aspetti che più mi attraevano di lui erano il suo vibrante potere, la forte personalità, la capacità di cogliere istantaneamente tutti i lati più intimi delle persone, la conoscenza pressoché inesauribile di qualsiasi argomento e la sua totale assenza di paure verso la vita. Ma più trascorreva il tempo e più mi accorgevo che la mia ammirazione si spostava inesorabilmente verso la sua dignità, l’infinita pazienza e amorevolezza con cui instancabilmente prodigava aiuto a tutti coloro che bussavano alla sua porta.

Io stesso mi stupisco nel toccare con mano che, nonostante abbia assistito personalmente ad eventi a dir poco straordinari, quando mi soffermo con un pizzico di nostalgia a rievocare qualche ricordo di Antonio, sono piccoli gesti che mi appaiono vividi in mente: un sorriso caloroso, un fugace ma penetrante sguardo, una parola severa ma carica di affetto.

Al di là di tutto, egli è stato più di un padre per me e per altre persone che gli hanno accordato questo sentimento. Come afferma un detto indiano, “il corpo di un iniziato nasce dal corpo dei suoi genitori, ma la sua essenza nasce nel grembo del cuore del suo maestro”.

È stato proprio dopo averlo conosciuto che ho scoperto un aspetto della bellezza per me prima inconcepibile, come i tratti ieratici del suo viso e la luce che emanava. Anche quando stava in silenzio, tutto il suo essere parlava, così come ogni sua parola o gesto erano sottolineati dalla sua presenza; una coerenza straordinaria più unica che rara.

Non abbandonava mai il suo atteggiamento semplice e vero, non usciva mai da quel ritmo meraviglioso che dava peso ed armonia a tutto quello che faceva. Osservare questo suo modo di muoversi nella vita mi lasciava sempre meravigliato ed estasiato. Come si poteva non ammirarlo? Come si poteva non amarlo?

Al giorno d’oggi, in cui viene incentivata l’abitudine di individuare (e spesso inventare o ipotizzare fino a prova contraria) i limiti altrui per poterli deridere e quindi meglio confrontarsi con la propria mediocrità, oppure la tendenza ad idealizzare e adorare qualcuno con gli occhi chiusi per scaricare su di lui le proprie responsabilità (finendo presto o tardi per metterlo al rogo dopo l’inevitabile delusione), io reclamo invece il diritto all’ammirazione cosciente come forza propulsiva verso l’elevazione.

Nella Bibbia, quando Elia si pone alla ricerca di Dio, si trova di fronte a molti fenomeni imponenti e maestosi: venti impetuosi, terremoti e incendi che sembrano presagire la presenza del Signore. Tuttavia, Elia non si lascia stupire dalla potenza di questi fenomeni, ed è così che infine il suo Amato gli si manifesta attraverso l’arrivo di una brezza leggera.

Antonio era questa brezza, non aveva bisogno di imporre o dimostrare la sua profondità d’animo con l’ausilio di effetti speciali, né tantomeno aveva interesse ad attrarre l’altrui considerazione e approvazione. Semplicemente, si poneva come tramite di qualcosa di più alto, come una fune sacra in grado di connettere le persone a qualcosa di immensamente più grande, senza neanche il bisogno di dichiarare apertamente questa sua funzione.

Alcune rare persone hanno indubbiamente acquisito molte conoscenze e maturato anche un certo grado di saggezza nei confronti della vita, ma non renderebbe giustizia ad Antonio includerlo tra queste, perché era percepibile come la sua grandezza non fosse il risultato di un accumulo di esperienze e informazioni, ma piuttosto la conseguenza di un contatto diretto con l’Intelligenza stessa che presiede la Vita.

Lo potrei altresì definire come un libro vivente. A differenza dei libri comuni infatti, che una volta letti vengono riposti sullo scaffale e presto o tardi dimenticati, un libro vivente non permette che lo si dimentichi con facilità, e si impone continuamente alla memoria per far comprendere la differenza tra un sapere intellettuale e un sapere reale, vivo.

Se dovessi però scegliere un solo appellativo per definirlo, credo che non ci sarebbe scelta migliore dell’aggettivo “sveglio”. Al suo cospetto ci si sentiva infatti letteralmente addormentati. Anche i grandi sapienti che cercavano un confronto con lui ne fuoriuscivano spesso confusi, come svegliati per un attimo da una lunga sonnolenza, destabilizzati nelle loro certezze, di qualunque natura esse fossero state (spirituali o scientifiche).

Vedendo nel profondo delle persone, Antonio aveva la capacità di metterne subito in luce i lati oscuri e distruttivi nascosti, al di là delle più fortificate ed elaborate maschere, e sapeva farlo tramite qualsiasi tipo di linguaggio simbolico. Il suo stile non era però mai invadente od umiliante, ma sempre elegante, pulito, indescrivibilmente pungente e affettuoso allo stesso tempo. Le sue parole erano come bisturi di precisione che andavano subito a toccare il punto malato.

Non occorrono chissà quanti anni di osservazione di sé per comprendere quanto siamo illusi di essere liberi e vigili, mentre in realtà viviamo in uno stato di profondo sonno, denso di sogni che si intrecciano l’uno con l’altro. In una condizione del genere, le parole di chi cerca di svegliarci si possono avvertire lontane ed evanescenti, ma si distinguono nettamente dagli altri sogni; hanno un suono completamente diverso, difficilissimo da descrivere ma innegabilmente inconsueto.

Non è certo un suono piacevole perché, nonostante voglia condurci in un regno interiore più reale e gioioso, tenta di farci aprire gli occhi trascinandoci via da tutte le illusioni coltivate per anni; ecco perché si rivela spesso così fastidioso e doloroso. Soprattutto gli incubi sono difficili da interrompere, infatti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ci si abitua e ci si affeziona molto più a quelli che ai bei sogni.

Anche se questa realtà può apparire dura da digerire, Antonio infondeva concrete speranze di risalita verso una vita più libera e piena, e parlava di un organo interiore potenzialmente presente in ogni essere umano, per quanto generalmente atrofizzato, che chiamava convenzionalmente Testimone Interiore. È proprio a questo organo che gli insegnamenti e gli stimoli di Antonio faceva appello, come un incantatore di serpente suona il suo flauto per farlo fuoriuscire ed elevare dalla cesta.

Il risveglio del Testimone Interiore infonde nuova linfa vitale alla persona, rivoluzionando il suo modo di vedere se stessa e il mondo, stimolandola a cercare nuovi significati esistenziali, più vasti e profondi di quelli appresi passivamente, e soprattutto spronando verso un’assunzione di piena responsabilità nei confronti della vita.

Potremmo quindi definire “guida” colui che ha già fatto esperienza più o meno chiaramente del suo Testimone Interiore e lo ha posto in qualche modo come fulcro della sua esistenza, mettendola così sinceramente a disposizione di altri, consapevole di non aver ancora raggiunto la cima della montagna ma di aver comunque percorso stabilmente un buon tratto di strada.

Se le vere guide sono talmente rare da rappresentare un’esigua percentuale nel caotico mare di tutti coloro che cercano di mostrarsi tali per interessi vari, ancora più rari sono quelli che possono a pieno titolo assumere invece il titolo di “maestro” nella più alta concezione del termine.

Cosa differenzia quindi una guida da un maestro? Quest’ultimo non ha solo stabilizzato dentro di sé il Testimone Interiore ma lo ha integrato ed esteso a tal punto da consentirgli di trascendere completamente i limiti della natura umana, raggiungendo una limpida coscienza al di fuori del tempo e dello spazio.

Il vero maestro non è solo in contatto con il proprio Testimone Interiore: egli è in grado di avvertire chiaramente anche la flebile voce di quello della persona che gli sta davanti, molto più chiaramente di quanto la stessa persona riesca ad avvertire, ancora immersa nei conflitti e nelle confusioni interiori.

Ecco che il maestro assolve sostanzialmente alla funzione di limpido specchio dentro il quale l’allievo può vedere chiaramente il barlume della sua essenza riflessa, ma principalmente tutto ciò che la ricopre e che rischia di sopprimerla. Spesso e volentieri non è una visione molto piacevole, per cui il delicatissimo compito del maestro è quello di mostrare pian piano tale immagine in proporzione alla capacità di accettarla del discepolo.

Oggigiorno vanno di moda le spiritualità fai-da-te, fondate su presupposti del tipo “ascolta il tuo cuore, lì ci sono tutte le risposte”. Non che sia un presupposto errato, peccato però che praticamente nessuno è in grado di discernere quali sono le istanze interiori che parlano appena ci fermiamo ad ascoltare, e spesso e volentieri provengono da emozioni e istinti vari, che poco hanno a che spartire con la volontà di un organo spirituale. Inutile girarci intorno: abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni cosa significa veramente ascoltare se stessi.

Sono personalmente consapevole che non riuscirò mai a sdebitarmi con Antonio per ciò che ha fatto per me, permettendomi di trasformare in esperienza reale ciò che per molti cercatori rimane congelato all’interno di enigmatiche filosofie esoteriche. Ma la sua benevolenza si è spinta anche oltre, donandomi un’ideale da poter inseguire: il suo esempio.

Non ho ovviamente l’ambizione di poter svelare chi lui fosse veramente; il mistero della sua reale identità e della sua missione in questo mondo rimarrà tale, inafferrabile, forse inconcepibile. Il fatto stesso che egli abbia deciso di condurre una vita riservata e all’ombra di ogni possibile notorietà, merita un sacro e meditato rispetto.

Quando mi soffermo ad immaginare una testimonianza scritta che Antonio avrebbe potuto lasciare di se stesso, credo che le sue parole sarebbero coincise con la dichiarazione che fece il conte di Cagliostro in risposta alla richiesta di rivelare la sua vera identità:

La verità su di me non sarà mai scritta, perché nessuno la conosce.

Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo; al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza e se mi immergo nel mio pensiero rifacendo il corso degli anni, se proietto il mio spirito verso un modo di vivere lontano da colui che voi percepite, io divento colui che desidero.

Partecipando coscientemente all’Essere Assoluto, regolo la mia azione secondo il meglio che mi circonda.

Il mio nome è quello della mia funzione e io lo scelgo, così come scelgo la mia funzione, perché sono libero; il mio paese è quello dove fermo momentaneamente i miei passi.

Io sono colui che è.

Non ho che un padre; diverse circostanze della mia vita mi hanno fatto giungere a questa grande e commovente verità; ma i misteri di questa origine e i rapporti che mi uniscono a questo padre sconosciuto, sono e restano i miei segreti.

Coloro che saranno chiamati al divenire, all’intravedere come me, mi comprendono e mi approvano. […]

Ma ecco: sono nobile e viandante, io parlo e le vostre anime attente ne riconosceranno le antiche parole, una voce che è in voi e che taceva da molto tempo risponde alla chiamata della mia; io agisco e la pace rinviene nei vostri cuori, la salute nei vostri corpi, la speranza e il coraggio nelle vostre anime.

Tutti gli uomini sono miei fratelli, tutti i paesi mi sono cari, io li percorro ovunque, affinché lo Spirito possa discendere da una strada e venire verso di noi.” [2]

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[1] Questo termine sanscrito significa letteralmente “associazione con i saggi”, ed è considerato nella tradizione induista una pratica spirituale di grande importanza.

[2] Pier Carpi, Cagliostro: il Maestro sconosciuto, Edizioni Mediterranee, 1997.

2 risposte a "L’Alleanza Sacra | Un essere fuori dal comune (cap. 2)"

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