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Antonio parlava molto raramente della sua storia, e credo che i motivi fossero principalmente due: da una parte non aveva il minimo interesse di attrarre l’attenzione su di sé per fini non inerenti all’insegnamento, dall’altra parte era certamente cosciente del fatto che cancellare le proprie tracce personali è il modo migliore per rendersi quanto più possibile immuni alle altrui semplicistiche etichette e definizioni.
Ciononostante, in alcune occasioni, quando il racconto di aneddoti della sua vita poteva servire da stimolo per gli altri, ecco che trapelavano piccoli particolari, che qui di seguito proverò a collegare in sequenza temporale.
Abbandonato ancora in fasce alla ruota degli esposti di una città pugliese, venne allevato in un orfanotrofio cattolico, dove vigeva un clima psicologico estremamente severo e vessatorio. La più bieca moralità sessuale era oppressiva quanto irragionevole per dei bambini così piccoli. I bagni, ad esempio, erano privati di qualsiasi porta, in modo tale da annullare ogni possibile attimo di intimità a rischio di “atto impuro”.
La disciplina quotidiana sconfinava nell’ostinazione priva di compassione: se per qualsiasi ragione di salute un bambino perdeva l’appetito per qualche pasto, le sue pietanze venivano conservate e continuamente riproposte nel suo piatto per fargliele presto o tardi consumare. Non di rado erano costretti a mangiare minestre con vermi o cibi solidi con muffe.
Antonio ricordava di aver sempre avvertito dentro di sé un naturale senso di giustizia. In quegli anni si prendeva cura dei bambini più piccoli di lui difendendoli dalle angherie subite dai preti. Proprio per questo motivo incorreva spesso in punizioni piuttosto brutali, come l’essere rinchiuso in una stanza buia per qualche giorno senza cibo.
Un giorno vide un sacerdote trascinare con la forza un bambino in una stanza appartata, e seguendoli di nascosto si rese conto che stava accadendo qualcosa di strano (pur non avendo ancora a quell’epoca dei parametri di riferimento per comprendere fino in fondo la gravità della situazione). Decise comunque di intervenire urlando, e quel sacerdote prese un bastone e iniziò a colpirlo ripetutamente per farlo stare zitto, fino al punto di compromettergli la vista dall’occhio destro.
I primi anni della sua vita trascorsero quindi in un ambiente di questo tipo, affettivamente asettico e intriso di violenza psicologica e fisica, ma lui traeva la forza per andare avanti dalla gratitudine che scorgeva negli occhi dei suoi piccoli compagni, che potevano contare solo su di lui, sulla sua amicizia, sul suo affetto sincero. In diverse occasioni, per riconoscenza, sfidarono anche la sorte per portare ad Antonio piccole porzioni di cibo rubate alla mensa, in modo da alleggerirgli i digiuni inflitti da ingiusti castighi.
Verso il sopraggiungere dei dodici anni, venne preso in adozione da una donna vedova e povera, attratta probabilmente dalle sovvenzioni statali destinate a chi si prendeva in carico un orfanello. Ad ogni modo Antonio ammise di aver sempre ricevuto da lei attenzioni e cure amorevoli. Dopo poco tempo si trasferirono a Roma, dove la madre adottiva trovò un impiego come domestica presso una facoltosa famiglia di ambasciatori americani.
In quel luogo Antonio, non ancora adolescente, conobbe un enigmatico cuoco di origini armene: colui che divenne il suo primo maestro. Per diversi anni seguì scrupolosamente i suoi insegnamenti, aiutandolo ogni sera a pulire la cucina al termine della cena in modo da non fargli perdere tempo prezioso. L’addestramento al quale venne sottoposto non era certo zuccherato e caramellato.
Antonio raccontò una volta di come era appena riuscito a mettersi faticosamente da parte poche lire per comprarsi un piccolo e modesto orologio, di cui però andava fiero; rappresentava infatti il suo primo e unico oggetto di valore che si era potuto permettere dopo tanti sacrifici.
Una sera il suo maestro parlò dell’attaccamento, e dopo una spiegazione teorica chiese al suo giovane apprendista se era pronto per una sperimentazione pratica in modo da comprendere più a fondo quel concetto. Antonio ovviamente non si tirò indietro, e così il maestro si fece dare il nuovo orologio e in un batter d’occhio lo mandò in frantumi con il colpo di un poderoso martello. Certamente fu uno shock per quel giovane ragazzo, ma comprese fin da subito che la trasmissione di un insegnamento senza la relativa esperienza pratica non ha nessun valore.
Raggiunta la maggiore età, il maestro gli disse che avrebbe dovuto trasferirsi da solo e al più presto a Torino, perché lì avrebbe potuto continuare il suo addestramento. Non gli disse altro, ma Antonio non se lo fece ripetere due volte e con grande fiducia si preparò alla partenza. Arrivato a destinazione, iniziò subito a cercare lavoro e trovò un impiego presso un’azienda tessile, cosa che gli permise di stabilizzarsi con più tranquillità nella nuova città.
Dopo pochi mesi venne raggiunto dalla notizia della morte del suo amato maestro e, contestualmente, gli venne recapitata una grande sedia in vimini dove quest’ultimo era solito sedersi quando insegnava. Il misterioso cuoco aveva lasciato chiare istruzioni in merito: quella sedia era destina al suo giovane allievo. In quell’occasione la madre di Antonio gli confidò anche una commovente verità, ossia il fatto che il suo maestro, segretamente, si era fatto carico di tutte le spese scolastiche da quando lo aveva incontrato fino al giorno del suo diploma.
Fu così che Antonio pose quella sedia con devozionale cura in un angolo della sua camera, e attraverso di essa il suo maestro poté continuare a portare avanti l’insegnamento, in un modo che non mi è consentito svelare.
Alcuni anni dopo, quando l’insolito addestramento giunse al termine, Antonio conobbe durante una cena di lavoro, in modo del tutto inatteso, la persona che diventò in seguito la sua nuova maestra: una donna di rara bellezza, di origini arabe e di età indefinibile. Conquistò subito la sua attenzione e si intrattenne a parlare con lei senza perdere occasione per chiederle di poterla rivedere. Lei accettò, invitandolo a casa sua la sera seguente.
Vestito di tutto punto, profumato e con un grande mazzo di rose rosse in mano, si presentò puntualissimo a casa dell’affascinante signora. Lei aprì la porta, gli prese i fiori e lo invitò a seguirla senza dare il minimo segno di gratitudine o di sorpresa. Si recò in soggiorno, prese un contenitore in vetro, lo riempì d’acqua e ci mise dentro il mazzo di rose, poi aprì un piccolo contenitore colmo di inchiostro nero e lo riversò tutto dentro. Non diede nessuna spiegazione, ma al termine della serata attirò l’attenzione di Antonio sui petali, che nel frattempo stavano iniziando ad assumere un colore nerastro.
“Ecco, guarda, anche le piante sono vive come noi: respirano, bevono, mangiano. Tutto intorno a noi è pieno di vita che merita il nostro rispetto, prima del soddisfacimento dei nostri capricci personali.”
Antonio comprese quella lezione, e all’incontro successivo cercò di ripiegare con un nuovo escamotage galante, al quale nessuna donna avrebbe certamente potuto resistere: una scatola di ottimi cioccolatini. Al suono del campanello la misteriosa signora aprì la porta e quando vide i cioccolatini li prese subito in mano e lo invitò nuovamente a seguirlo, questa volta diretta verso il bagno. Aprì la tazza del water, fece scivolare dentro i cioccolatini e tirò lo sciacquone.
Con quel gesto chiarì incontrovertibilmente quello che sarebbe stato il motivo dei loro incontri, cioè il proseguo del suo insegnamento, senza lasciare appigli per altre aspettative.
L’addestramento si rivelò intenso ed estremamente impegnativo, e non trapelò mai nulla di più oltre a questi brevi e veloci accenni. La frequentò quasi tutte le sere per otto anni, durante i quali apprese il modo di padroneggiare energie e stati di coscienza impossibili da concepire o descrivere a parole, talmente potenti da condurre alla pazzia senza una meticolosa e rigida preparazione.
Il giorno in cui la misteriosa signora comunicò ad Antonio che l’addestramento era concluso, lo congedò dicendogli che non si sarebbero mai più rivisti. Così fu. Antonio preservava di lei una sola foto che custodiva con cura, e diceva spesso che per quanto fosse vasta la sua gratitudine verso il primo maestro, non poteva non riconoscere agli insegnamenti ricevuti da questa donna enigmatica una raffinatezza e una profondità ineguagliabili, che lo trasformarono radicalmente e visceralmente in tutto il suo essere.
In questa breve sintesi del passato di Antonio sono contenuti buona parte dei pochi dettagli raccolti dalle sue parole nel corso degli anni, ma anche su questi eventi rimangono alcuni interrogativi aperti. La maggior parte della sua vita rimane ancora oggi avvolta nel mistero.
Non di rado quando parlava di sé sembrava poi confondere le tracce, forse per mantenersi indefinibile o forse perché alcuni aspetti della sua vita nessuno li avrebbe capiti, con il rischio di dare adito a banalizzazioni o fraintendimenti. Certamente, era un artista dell’insegnamento, e come tale dava molto più valore alla verità iniziatica piuttosto che alla verità storica.
Ad esempio, un giorno lo sentii raccontare un aneddoto della sua vita rivolgendosi ad un ragazzo, il quale stava attraversando un periodo tormentato per via del difficile rapporto con la madre eccessivamente apprensiva e controllante. Antonio gli raccontò che, quando era giovane e in cerca di lavoro, gli venne offerta l’opportunità di trasferirsi in Brasile per un prestigioso impiego che faceva al caso suo. Lui fu entusiasta di questa proposta ma dovette infine rinunciare per via delle sottili minacce della madre adottiva, che arrivò addirittura al punto di ammalarsi, tanta era l’agitazione all’idea di lasciare il figlio libero di fare la sua vita.
A conclusione di questa breve storia, Antonio concluse di aver compiuto un grave errore nel lasciarsi intimorire dalle sottili ma evidenti minacce affettive della madre, poiché un genitore non ha mai il diritto di precludere esperienze vitali ad un figlio, ma dovrebbe piuttosto incoraggiarlo e sostenerlo.
A distanza di anni dalla sua morte venni però a conoscenza di un’altra versione di questo racconto, che reputo per molte ragioni storicamente più plausibile: quando Antonio compì il diciottesimo anno di età, la ricca famiglia per la quale lavorava sua madre dovette rientrare in patria, e in quell’occasione gli venne offerta l’opportunità di trasferirsi a New York in vista di un prestigioso posto di lavoro al servizio della stessa famiglia. In effetti la madre non era per nulla d’accordo per i motivi già espressi, ma il giovane Antonio non avrebbe comunque abbandonato il suo maestro e l’insegnamento per nulla al mondo.
Mi chiesi dunque il motivo per cui lo stesso aneddoto differiva in alcuni punti, sapendo benissimo (dopo plurime riprove) che non vi era mai nulla di casuale nelle apparenti incongruenze nei racconti di Antonio. Dopo soltanto due mesi da questa domanda mi arrivò la risposta, dato che rincontrai quasi per caso e dopo tantissimo tempo il ragazzo a cui venne raccontata questa storia molti anni prima.
Con mio piacevole stupore, mi raccontò di come la sua vita fosse drasticamente cambiata in meglio grazie a una proposta di lavoro che ricevette negli anni successivi alla morte di Antonio e che lo condussero a trasferirsi per alcuni anni in Brasile, dove conobbe tra l’altro la sua futura moglie. Ovviamente, non mancò di raccontarmi della faticosa e combattuta decisione che dovette compiere per lasciare il nido materno e lanciarsi così nella nuova esperienza.
Non chiesi al mio vecchio amico se si ricordava il racconto di quell’aneddoto, ma sono certo che giocò un ruolo fondamentale nel permettergli di sradicarsi dal suo nido genitoriale, al quale era sempre stato tenacemente attaccato e psicologicamente dipendente.
In moltissime altre occasioni ebbi modo di constatare come le parole di Antonio assumevano la forma di impercettibili ma potenti simboli in grado di lavorare sotto la superficie della coscienza anche per molto tempo, prima di emergere al momento opportuno per aiutare la persona durante scelte di vita decisive e difficoltose.
La nostra mentalità attuale, drammaticamente influenzata da una prospettiva scientista, mette sullo stesso piano la verità e la realtà oggettiva percepibile e misurabile dai sensi. Questo genere di oggettività è però una chimera pericolosa da idolatrare al di fuori del suo contesto specifico, perché non tiene conto del mondo interiore e simbolico delle persone, estremamente più importante e influente di quello puramente logico-razionale.
Non di rado, l’ostinata verità oggettiva può ottenere anche l’effetto di una grave menzogna laddove conduce una persona a spegnere il suo slancio vitale.
Antonio era unicamente interessato al fatto che le sue parole esercitassero specifici effetti sulla realtà interiore dei suoi ascoltatori, dato che sapeva benissimo che la realtà esteriore viene continuamente alterata dal modo in cui viene percepita; per tale motivo non si poneva i limiti di una veridicità storica e dimostrabile, ma la plasmava e modellava per realizzare l’opera più adatta al momento.
D’altronde si può riscontrare il medesimo sistema anche negli insegnamenti tramandati dalle più diverse correnti spirituali, basti pensare ai racconti mitologici, alle favole o alle note storielle ebraiche, sufi, zen, eccetera, dove non ha nessuna importanza se gli eventi citati siano o meno realmente accaduti: è l’identificazione stessa con i suoi protagonisti a renderle reali ed efficaci nel momento presente. Molti romanzi o film dichiaratamente inventati possono lasciare tracce indelebili e cambiare concretamente la vita di coloro che si lasciano coscientemente influenzare.
Antonio raccontava in diverse occasioni la storia di un tizio che entra dentro una stanza buia con una torcia. Improvvisamente il fascio di luce cade in un angolo dove viene illuminato un serpente. Il tizio scappa così a gambe levate per lo spavento, carico di adrenalina in corpo. Successivamente, dopo essersi tranquillizzato, decide di rientrare con estrema attenzione e a piccoli passi. Varca la soglia e riesce ad accendere l’interruttore della luce per illuminare tutta la stanza, e cosa vede? Una corda arrotolata nell’angolo.
Morale: l’uomo aveva quindi visto quella corda con la torcia precedentemente? No. Aveva visto un serpente. Tutte le sue emozioni, i suoi pensieri e le sue reazioni organiche avevano vissuto l’esperienza reale di un serpente, e solo in un secondo tempo avevano vissuto un’esperienza differente – e non per questo più reale della precedente – vedendo una corda.
La cultura occidentale ha un grossissimo limite nel riconoscere questo dato di fatto, e cerca ostinatamente di trarre forza e sicurezza dalla sua illusione di oggettività, che altro non è che un’ostinata e limitata fossilizzazione dell’attenzione su un unico aspetto di una realtà molto più vasta. Questo si riversa anche sul suo approccio alla spiritualità, dove i fedeli alla figura del Gesù storico si sentono più evolutivi e concreti dei devoti di altre divinità.
Se venisse dimostrato ad un cristiano che il Cristo non è in realtà mai esistito e che si tratta solo di un’invenzione storica, questi cadrebbe certamente in una profonda delusione e crisi interiore; si sentirebbe ingannato, tradito, e molto probabilmente perderebbe la sua fede.
Per un devoto di Krishna, per esempio, potrebbe non avere invece nessuna importanza il fatto che la sua immagine di Dio abbia attraversato o meno in carne ed ossa questo mondo: l’importante è la forza del messaggio, la sua verità simbolica, la possibilità di connettersi con quel tipo di coscienza archetipica e farne esperienza diretta.
Dunque, quale delle due fedi potrebbe definirsi più evoluta e concreta in questo caso, quella cristiana o quella induista?
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