Per leggere la presentazione del libro cliccate qui.
Non si poteva dire o pensare che Antonio veicolasse un tipo specifico di insegnamento piuttosto che un altro. Il suo stile di addestramento eccedeva la possibilità di essere classificato o argomentato. A volte costruiva certezze in cui poter offrire rifugio, altre volte le distruggeva per far rimettere in cammino.
Ogni concetto o informazione non avevano un valore reale di per se stessi, ma rappresentavano per lui solo dei veicoli per poter raggiungere la natura profonda delle persone e lavorare su di essa; una volta raggiunto l’obiettivo, il veicolo poteva anche essere abbandonato e mai più ripreso.
Solo frequentando Antonio ho compreso il motivo per cui i grandi maestri non sono propensi a mettere per iscritto i loro insegnamenti. Ne emergerebbe infatti una dissertazione incomprensibile nella migliore delle ipotesi, pericolosa e fraintendibile nella peggiore. Come è scritto nel primo capitolo del Tao Te Ching:
“Il Tao (la Via) di cui si può parlare, non è l’Eterno Tao.”
Ricordo un giorno in cui era presente una signora che lamentava di non riuscire a creare un rapporto con la figlia adolescente, addossando ovviamente a quest’ultima tutta la responsabilità, e sostenendo con forza le proprie ragioni tirando in ballo le teorie dei più moderni scienziati del comportamento.
Antonio si scagliò con argomentazioni inconfutabili contro l’assurdità di tali paradigmi psicoterapeutici, mettendone in risalto con grande chiarezza gli effetti nocivi sulla coscienza, in primis quella della signora lì presente, che preferiva nascondersi dietro parole altisonanti piuttosto che accettare la sua evidente incapacità di amare la figlia.
In quell’occasione dipinse l’attuale scienza psicologica come un riflesso deformato delle antiche scienze iniziatiche, utilizzando una retorica talmente convincente da farmi mettere seriamente in discussione il percorso di studi universitari che stavo portando avanti da circa due anni.
Come avrei potuto continuare a battere la strada che conduceva verso l’oscurità? E per quale motivo Antonio non mi aveva avvisato prima?
Ma a lui non sfuggì certo la mia tribolazione e mi prese infine in disparte per tranquillizzarmi sui miei studi mettendone in risalto gli aspetti più affascinanti. Cosa che non mi sarei mai aspettato, mi incoraggiò a concluderli nel migliore dei modi, ponendomi solo in guardia sul fatto di non prendere tutto per oro colato ma di vagliarlo sempre attraverso il nuovo discernimento che stavo via via maturando.
Di esempi analoghi ce ne sono moltissimi. In un’occasione dipinse il suicidio come uno degli atti più stolti che un essere umano possa compiere: l’auto-privazione del dono della vita che in nessun modo è risolutivo per la sofferenza interiore, che dovrebbe essere invece affrontata in ben altro modo.
In una successiva occasione si presentò ad un incontro una ragazza che confidò di portarsi dentro un profondo rancore verso il padre, il quale si tolse la vita impiccandosi quando lei era ancora molto piccola. In quel momento mi preparai ad assistere nuovamente all’esposizione di quanto sia riprovevole un tale atto, ma non successe nulla di tutto ciò.
Antonio le accarezzò dolcemente la guancia, sussurrandole che occorre grande coraggio per togliersi la vita, e che se suo padre arrivò a tanto è perché reputò quel gesto la cosa migliore per proteggerla da quella tristezza. La ragazza si lasciò andare in un lungo pianto liberatorio e da quel giorno riuscì a riappacificarsi con la figura del padre, non vedendolo più come un vigliacco e un insensibile.
Diverso tempo dopo venni inoltre a sapere che nella prima occasione, quando dipinse il suicidio come l’ascensore per l’Inferno, vi era tra i presenti una persona che coltivava nei suoi pensieri più intimi questo genere di possibilità.
Ci si potrebbe quindi fermare davanti all’evidente contraddizione, oppure provare a guardare più lontano per scorgere che dietro il “gioco” di opinioni così drasticamente discordanti, due persone hanno trovato nuovi significati e una rinnovata forza di vivere.
Anche se rari, in alcuni libri ho potuto riscontrare evidenti similitudini tra la vita di Antonio e quella di altri grandi maestri, non tanto per il modo in cui vivevano, spesso molto differente per via delle diverse epoche e contesti sociali, quanto per il modo in cui insegnavano.
Per citarne alcuni, ho trovato impressionanti analogie nelle descrizioni di Sri Yukteswar compiute da Yogananda, di Peter Deunov descritto da Omraam Mikhaël Aïvanhov, di Vimalananda narrato da Svoboda, di Don Juan raccontato da Castaneda e dell’enigmatico Monsieur Chouchanì che emerge dalle diverse testimonianze di chi lo ha incontrato nel dopoguerra. Tutte figure accumunate da una medesima intensità, imprevedibilità, serietà ed impeccabilità.
Consapevole dell’impossibilità di decriptare l’immensità che si cela dietro personaggi di questo genere, ho comunque sempre osservato con magnetica attenzione il modo in cui Antonio interagiva con le persone più disparate e nelle situazioni più impensate, chiedendomi ogni volta da quale sorgente interiore riuscisse ad attingere a quell’acqua vitale che riversava inesauribilmente.
Sembrava in grado di espandere o restringere a piacimento i confini della sua coscienza fino ad inglobare quella delle persone che aveva di fronte. Ecco perché le sue parole erano così mirate, così pungenti, così incoraggianti. Si poneva in questo modo come traduttore di un sussurro presente dentro la persona stessa, un sussurro ancora troppo flebile per potersi esprimere da solo ed essere compreso; Antonio sembrava “prestare” semplicemente la sua voce e la sua autorevolezza, affinché il messaggio potesse arrivare forte e chiaro al diretto interessato. In diverse occasioni ripeteva:
“Voi vi offendete o vi meravigliate delle parole che io a volte vi dico, perché pensate che siano mie opinioni personali, ma non è così. Sono messaggi che provengono da qualcosa che è presente dentro di voi, e di cui io mi pongo come semplice portavoce, perché voi siete ancora troppo distratti da mille rumori e da mille chimere. Quando riuscirete a sentirlo da voi stessi, non avrete più bisogno di me.”
Molto spesso vedevo infatti le persone avvicinarlo per chiedergli dei consigli, e poi allontanarsi un po’ deluse od irritate per aver ricevuto delle indicazioni non gradite. Ogni volta era come assistere alla scena descritta nel Vangelo, dove il giovane ricco si avvicina a Gesù pregiandosi della sua rigorosa disciplina spirituale, ma che alla richiesta di vendere tutti i suoi averi si allontana a gambe levate.[1]
Non è il paziente che può scegliere la sua cura, ma deve essere disposto ad accettare la medicina amara che gli viene prescritta, se vuole realmente guarire.
Il potere di Antonio andava ben oltre la capacità di leggere nel pensiero: era in grado di leggere nei cuori. Poteva estendere la sua coscienza fino ad includere non solo quella dei singoli individui ma anche quella del gruppo di persone a cui si rivolgeva. Quando elargiva insegnamenti ad un pubblico, ciascuno era convinto che il messaggio fosse proprio rivolto a lui. Inspiegabilmente, le sue parole toccavano contemporaneamente la parte più intima e profonda di tutti gli ascoltatori.
Era indubbiamente tramite di qualcosa di più grande, capace di liberare la sua coscienza dai vincoli della personalità individuale in base a ciò che la situazione richiedeva. Poteva sostenere le persone nei momenti di difficoltà con una dolcezza senza eguali, oppure manifestare una furia tremenda per abbattere le ipocrisie e le falsità; poteva parlare con una semplicità disarmante di concetti complessi per renderli limpidi a tutti, oppure entrare in argomentazioni così difficili ed articolate da disarmare i più dotti interlocutori.
Ogni volta che pensavo di avere già visto tutte le sue possibili sfaccettature, ecco che subito mi sorprendeva nuovamente.
Sono certo che le personalità che indossava quotidianamente per muoversi nel mondo fungevano da filtri che adottava per mantenersi il più vicino possibile alle persone comuni, e in questo modo riusciva a confondersi tra di esse quando le circostanze lo richiedevano.
Ricordo un giorno quando dovette partecipare alla riunione condominiale del palazzo in cui viveva. Si era trasferito lì da poco e i vicini iniziavano a porsi qualche domanda su quello strano e continuo via vai di gente a casa sua. Maestro dell’arte dell’invisibilità, Antonio partecipò a quella riunione recitando la parte di un uomo sempliciotto con tratti di ebetismo, proponendo soluzioni assurde ed inverosimili ai problemi sollevati dall’amministratore, al punto tale che gli altri condomini iniziarono a guardarlo da quel giorno con distaccata sufficienza piuttosto che invadente curiosità.
Grazie alla sua totale indifferenza alle opinioni altrui e alla notorietà, il suo riserbo rimase sempre intatto.
Quando lessi del concetto di “follia controllata” nei libri di Castaneda, ne compresi immediatamente il significato pensando proprio ad Antonio. Attore poliedrico e geniale, sembrava essere ogni volta totalmente immerso ed identificato nel ruolo che recitava, salvo poi cambiare copione da un momento all’altro. L’unico filo conduttore che si poteva sempre scorgere chiaramente dietro le sue molteplici forme, era la tensione verso l’aiuto disinteressato.
Una bellissima storiella ebraica narra di un regno lontano, dove un principe perse la ragione e iniziò a pensare di essere un tacchino. Viveva sotto il tavolo, completamente nudo, e rifiutava i piatti regali che venivano serviti agli invitati nel vasellame dorato del palazzo. Si nutriva esclusivamente della semenza destinata ai tacchini.
Il Re fece venire i migliori medici e gli specialisti più famosi: tutti si dichiararono incompetenti. Anche i maghi, e così pure i guaritori, i taumaturghi: le loro intercessioni risultavano sempre vane. Un giorno, un saggio sconosciuto si presentò a corte:
“Credo di poter guarire il principe”, disse umilmente e timidamente, “mi consentite di provare?”.
Il Re acconsentì, ormai affranto dalla disperazione, e il saggio tra lo stupore generale si tolse i vestiti e andò a raggiungere il principe sotto il tavolo, mettendosi a gloglottare come un tacchino. Diffidente, il principe lo interrogò:
“Chi sei tu? E cosa fai qui?”.
“E tu”, replicò il saggio, “chi sei e cosa fai qui?”.
“Non vedi? Sono un tacchino e sto razzolando!”.
“Ma pensa”, disse il saggio, “che curioso incontrarti qui!”.
“Perché curioso?”.
“Ma come, non vedi che sono un tacchino come te?”.
I due uomini-tacchino strinsero così amicizia e giurarono che non si sarebbero più lasciati. E allora il saggio si dedicò al riadattamento del principe con l’esempio. Per incominciare, indossò una camicia. Il principe non credeva ai suoi occhi:
“Sei matto? Dimentichi chi sei? Vuoi essere uomo, proprio tu?”.
“Beh”, rispose il saggio con tono conciliante, “non credere che un tacchino che si vesta come un uomo cessi di essere un tacchino”.
Il principe non poté che acconsentire, e l’indomani entrambi si vestirono normalmente. Il saggio si fece allora portare qualche piatto dalla cucina regale.
“Che fai, sciagurato!”, protestò il principe al colmo dell’orrore, “ti metti a mangiare come loro, adesso?”.
L’amico lo rassicurò:
“Non credere che mangiando come gli uomini e con gli uomini, alla loro tavola, un tacchino cessi di essere quel che è; non credere soprattutto che basti per un tacchino comportarsi da uomo per diventare umano; puoi far tutto con gli uomini, nel loro modo, addirittura per loro, e restare ugualmente il tacchino che sei”.
E fu così che il principe, convinto, riprese la sua vita di principe.
Antonio era come il saggio di questa storia: aveva la capacità di entrare in sintonia con i significati esistenziali e le credenze della persona con cui interagiva, e da lì partiva per ampliarne ed innalzarne le prospettive. Non l’ho mai visto deridere le idee di qualcuno o canzonare una visione della vita, per quanto potesse apparire semplicistica o ridicola agli occhi altrui.
Anzi, se vedeva qualcuno di noi lasciarsi andare a facile ironia nei confronti di persone o gruppi religiosi che reputavamo infantili o sciocchi, ci rimproverava duramente. Per quanto fosse lui per primo combattivo verso coloro che utilizzavano concetti spirituali in cattiva fede per vantaggi personali, era al contrario estremamente ben disposto e più che rispettoso verso coloro che mettevano sinceramente il cuore al servizio dei loro ideali spirituali.
A tal proposito, un giorno ci raccontò la storia di un noto mistico che stava attraversando il deserto, quando a un tratto vide un uomo solitario raccolto in preghiera appassionata di fronte al teschio di una capra infissa sopra un palo. Davanti a quella scena – ai suoi occhi follemente idolatra – il mistico sfoderò tutte le sue arti oratorie per far capire al selvaggio primitivo l’assurdità di identificare l’Assoluto con quella testa di animale, per poi proseguire soddisfatto per la propria strada.
A distanza di moltissimo tempo da quell’incontro, quando la morte infine lo prese con sé, il mistico si ritrovò finalmente di fronte a Dio, ma invece di ricevere la gloria che si sarebbe aspettato per via di un’esistenza trascorsa nella rettitudine, con sua grande sorpresa il Signore lo rimproverò aspramente ricordandogli proprio quel lontano momento nel deserto:
“Sono molto adirato perché hai allontano da me uno dei miei figli più cari. Vedi, prima mi parlava attraverso quella testa di capra, e piano piano sarebbe arrivato direttamente al mio cospetto, ma da quel giorno, deluso e convinto dalle tue parole, chiuse il suo cuore e smise di cercarmi.”
Antonio valorizzava molto di più la purezza e semplicità di cuore che la preparazione intellettuale e l’astuzia razionale. Inoltre, non mancava di ridimensionare gli eccessi di coloro che sopravvalutavano la propria capacità di discernimento, facendo loro toccare con mano come anche i più sopraffini concetti di Dio potrebbero rivelarsi infine “teste di capra” agli occhi di chi si è spinto a livelli di coscienza più profondi.
Coloro che invece meschinamente e consapevolmente storpiavano certi insegnamenti per adattarli ai propri interessi, venivano affrontati da Antonio sempre direttamente e a viso scoperto, senza mai essere da lui umiliati o scherniti, tantomeno alle spalle. I suoi combattimenti erano sempre dignitosi e leali, tesi a lasciare all’avversario la possibilità di alzarsi in qualsiasi momento, purché con rinnovato spirito.
Nel periodo successivo alla sua morte, andai a parlare con numerose persone che lo avevano conosciuto (superficialmente) per i più svariati motivi e nei luoghi più impensati. Alcuni lo descrivevano come un uomo di rara gentilezza, altri come un burbero intrattabile, e così via con una lunga serie di caratteristiche contradditorie. Sarebbe stato impossibile ricostruirne un identikit preciso, se non a costo di far emergere il ritratto di diverse figure molto diverse tra loro. L’incontrovertibile coerenza era sostenuta solo dal suo essere veicolo in ogni occasione e circostanza di un’intelligenza più vasta e lontana dalla comune percezione.
Per alcuni era padre, o intimo amico, o molesto perturbatore, o silenziosa presenza, o irascibile guerriero, oppure ancora delicato soccorritore. Poteva dunque assumere l’aspetto di maestro, ma anche quello di allievo se le condizioni lo richiedevano. Ad esempio, non essendo ebreo di nascita, non avrebbe mai potuto insegnare la Qabbalah ai rabbini; per moltissime ragioni culturali e religiose un’eventualità del genere sarebbe stata inammissibile.
Per nulla attaccato al riconoscimento altrui, non si sentiva affatto mortificato nell’assumere la veste di studente se la circostanza lo richiedeva, e da lì insegnare inducendo l’altra persona, tramite continue e mirate domande, a perseguire nuove strade e nuove riflessioni.
Se anche la sua essenza più profonda rimaneva e rimarrà sempre indecifrabile ed imperscrutabile, in rare occasioni avevo come l’impressione che per fugaci attimi provasse a renderla più visibile ai nostri occhi, e la sensazione era simile a quella provata nel guardare direttamente il sole senza occhiali: una luce abbagliante e insostenibile.
Ricordo ancora con intensa e sacrale emozione una notte di Agosto, quando Antonio improvvisamente assunse un tono e un aspetto più solenne del solito. Il suo viso divenne immobile e intenso come quello di un’antica statua egizia, i suoi occhi sembravano riflettere una luce rossa scura, ma tutt’altro che inquietante. L’atmosfera era surreale, come se improvvisamente tutte le coscienze delle persone fossero state teletrasportate su un altro piano di realtà, pur mantenendo i corpi fermi nello stesso posto.
Non ci sono parole degne di narrare fedelmente un’esperienza del genere, ma potrei descriverla come una sorta di sogno lucido veicolato da Antonio e condiviso da tutti i presenti. Sembrava che il tempo si fosse momentaneamente sospeso e che tutta l’attenzione si fosse concentrata verso un’insolita e potentissima presenza che non permetteva ai pensieri di vagare altrove.
Antonio si mise a parlare con una voce non umana, particolarmente maestosa e profonda. Non ho un ricordo preciso di quelle parole, come se fossero entrate in profondità per poi subito svanire dalla memoria razionale cosciente, ma grazie al confronto con alcuni dei presenti, nei giorni successivi riuscii a ricostruire ed annotare qualche traccia, di cui ometto delle parti che non potrebbero essere comprese:
“Sono venuto perché nessun altro è voluto venire qui, perché questo non è un bel mondo. Sono venuto in queste paludi con una piccola barca per cercare di aiutare quelle persone che affogano lentamente nella melma.
Non ho grandi progetti… se ne salverò dieci andrà bene; se saranno cinque, tre, due o uno, non sarò comunque venuto per niente. Se nessuno si salverà, avrò altre vite all’infinito per cercare qualcun altro che non voglia annegare.
Non immaginate quanti morti galleggiano in questo mondo, ed io sono alla continua ed inesauribile ricerca di qualcuno che sia ancora moribondo.
L’uomo è come una bolla di sapone, sulla sua superficie mille colori e mille immagini si riflettono. Quando scoppia, torna ad essere un tutt’uno con l’esterno. Così l’uomo pensa di non avere nulla all’interno mentre possiede un mondo intero grande e uguale a quello esterno. Quando morirà, scoprirà che è così.
Il modo per trovare la strada è cercare all’interno, scoprire che l’esterno che noi vediamo è come le immagini riflesse sulla bolla di sapone: non esistono veramente, è molto più reale ciò che si ha dentro. Se si segue la Via, ci si accorgerà che non esiste una differenza tra il fuori e il dentro.”
[1] Vangelo, Mc 10, 17-30.
Rispondi