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Personalmente ho sempre avuto una sorta di attrazione/repulsione verso l’idea di maestro. Stimolato da una forza nostalgica che ho compreso solo il giorno in cui ho conosciuto Antonio, fin da piccolo evocavo e sognavo l’incontro con un mentore dotato di profonda saggezza e amorevolezza.
Allo stesso tempo però, ero nauseato dalla maggior parte dei personaggi che si pubblicizzavano e vendevano come tali, alla stregua dei divi di Hollywood, e che ottenevano incredibilmente il consenso di moltitudini di devoti e ammiratori. Per questo motivo non posso biasimarmi più di tanto se nella mia giovinezza, dopo diversi incontri deludenti, persi le speranze rifugiandomi infine in un insofferente ateismo.
La figura di maestro che emerge infatti superficialmente dall’immaginario collettivo occidentale è piuttosto goffa e corrisponde generalmente ad una caricatura grossolana dei più noti guru orientali, spesso mal compresi e mal interpretati dalla nostra cultura.
Su questa scia si delinea l’identikit di una persona con il sorriso zuccheroso e una dentatura bionica, con vesti bianche e svolazzanti, prodiga di carezze e parole caritatevoli per tutti, giocoliere di concetti astratti e fumosi, che vive lontana dalla contaminazione del mondo quotidiano e con un conto in banca proporzionale alle sue “doti” spirituali.
Antonio era ben lontano da una simile caricatura, non ostentava santità e non mendicava consensi, non aveva nulla da vendere e nulla da comprare; la sua serietà e autorevolezza infondevano piuttosto una certa rassicurazione sul fatto che, per quanto indubbiamente rari e difficili da individuare, esistono realmente maestri degni di questo appellativo nella sua più profonda e tradizionale accezione.
Le fantomatiche guide spirituali che si avvicinavano invece al suo cospetto con fare altezzoso per decantare le proprie realizzazioni e il proprio curriculum iniziatico, a volte proponendogli collaborazioni in nome del business spirituale, riuscivano ad ottenere solo l’azione di un rullo compressore che prontamente schiacciava la loro allucinatoria presunzione. Tra queste figure, molteplici, ricordo quella dell’ideatore di una grande e nota comunità della provincia di Torino e quella del fondatore di una famosa scuola di crescita personale presente nella medesima città.
Ricordo anche con vivida chiarezza una sera in cui mi ero preso l’impegno di accompagnare a conoscere Antonio un signore proveniente dalla città in cui vivevo. Il suo nome era Fabrizio e si trattava di una persona particolarmente eccentrica e piuttosto nota per le sue indiscusse (o presunte tali) doti di sensitivo.
Le leggende sul suo conto, che lui stesso amava foraggiare, lo vedevano in costante contatto con moltitudini di maestri invisibili. Coloro che avevano avuto l’occasione di trascorrere una o più serate con lui, giuravano di averlo visto cadere in trance per ore, durante le quali disegnava arcani sigilli e trascriveva insegnamenti provenienti dai mondi sottili.
Non ricordo bene come, ma qualcuno parlò a Fabrizio dell’esistenza di Antonio, e fu così che chiese di poter partecipare ad un incontro, cosa che gli venne ovviamente concessa.
Durante tutto il tragitto in macchina (della durata di oltre un’ora) mi tempestò di racconti dei suoi viaggi astrali e degli incontri con entità sovrasensibili. Io lo ascoltavo con attenzione sostenendo un faticoso sorriso plastico con il quale cercavo di nascondere le burrascose emozioni che mi attraversavano dentro: mi sentivo letteralmente svilito nel confrontarmi con la sua “elevata sensibilità”, dalla quale mi sentivo lontanissimo.
Quando arrivammo a destinazione, Antonio stava già per iniziare a parlare e non ci fu quindi il tempo per presentargli il nuovo ospite. Lo feci così sedere vicino a me e, durante la serata, ogni tanto mi sfiorava per attirare la mia attenzione e lanciarmi uno sguardo di fiera approvazione, che io interpretavo nervosamente così: “è proprio un grande maestro questo Antonio… ora cari miei dovrete farvi da parte, perché sono arrivato io, il suo degno erede al trono, e per voi non rimarranno che briciole”. Lo confesso, ero ormai distrutto.
Al termine dell’incontro, mentre Antonio si alzò per venire verso di noi, Fabrizio di sua iniziativa gli andò incontro deciso con un sorriso immenso, pronto a prendersi la benedizione riservata all’eletto. Ma qualcosa non andò esattamente secondo i suoi piani. Antonio non lo salutò neanche e continuò a camminare verso un’altra direzione. Dopo un breve e rapidissimo sguardo perforante, gli disse solo queste parole:
“Tu, se vuoi veramente che io spenda il mio tempo per insegnarti qualcosa, dovrai prima convincermi che ne vale la pena, iniziando prima di tutto con il mettere i piedi ben piantati a terra.”
Fabrizio rimase interdetto, come se per un attimo avesse subito una menomazione nell’area cerebrale normalmente impiegata alla comprensione del linguaggio. Durante il viaggio di ritorno, gli stati d’animo si invertirono: lui era silenzioso e pensieroso, io ero allegro e pieno di voglia di vivere perché tutti i miei assurdi timori si erano grazie al cielo frantumati. Dopo quella sera, non rividi mai più Fabrizio.
Fu per me una grandissima lezione: la spiritualità autentica non ha nulla da spartire con eccentriche manifestazioni di doti sovrannaturali, siano esse reali o frottole clamorose.
Leggendo le biografie di quei rari personaggi che, dal mio punto di vista ovviamente, annovero tra coloro realmente degni di portare l’appellativo di maestro, è impossibile scorgere atteggiamenti vanagloriosi, ma piuttosto una semplicità disarmante, un naturale stato di bontà e sincero interesse verso gli altri.
Com’è possibile non rimanere affascinati da figure come Morihei Ueshiba raccontato da John Stevens, o Shams di Tabriz decantato nelle poesie mistiche di Rumi, o Baal Shem Tov evocato dalle storielle chassidiche, o ancora Sri Ramana Maharshi descritto dai suoi discepoli? Com’è possibile non intravedere una profonda verità dietro le parole di Krishnamurti, o negli scritti pervenutici da coloro che seguirono Gurdjieff, primi fra tutti Jeanne de Salzmann?
Sono consapevole che qualcuno potrebbe presentare le sue obiezioni anche verso questi grandi uomini e donne, e sono sempre stato incuriosito dalle opinioni avverse. Ho letto ostinatamente tutto quello che potevo trovare in relazione alle critiche che sono state mosse su tali insegnamenti, facilitato dal fatto di non avere nessun interesse personale nel difenderli ostinatamente, ma ho solo e sempre trovato considerazioni retoriche impersonali o filosofiche, e quindi prive di reale valore dal mio punto di vista.
Attraverso le dissertazioni dialettiche, o l’accanimento sul significato etimologico di una parola, è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto. Al giorno d’oggi basta approfondire qualsiasi argomento per trovare una moltitudine di informazioni spesso palesemente discordanti tra loro, e questo non accade solo per tematiche spirituali, ma anche per quelle più rigorosamente scientifiche. A mio avviso non vi è altra via di uscita che vagliare attraverso le proprie concrete possibilità di esperienza e di sperimentazione ciò che si apprende.
La potenza di Antonio risiedeva proprio in questo: non pretendeva mai una fede devozionale in quello che diceva, ma solo un pizzico di fiducia in grado di consentire la messa alla prova dei suoi stimoli nella vita quotidiana, per valutarne poi i risultati ed eventualmente anche dibatterli apertamente.
La sua sicurezza interiore era ammaliante quanto destabilizzante. Durante l’occasione di una conferenza pubblica dedicata alla presentazione dell’I King, un antico oracolo cinese di tradizione taoista, venne effettuata una divinazione per rispondere alla domanda impellente di una persona presente in sala. Il responso del tiraggio fu incredibilmente appropriato e Antonio riuscì a decriptare anche le parti più ermetiche del messaggio, donando all’interessato moltissime indicazioni concrete per risolvere la sua problematica vitale.
Ma ad un certo punto si levò dalla platea una signora incredula, affermando che poteva solo trattarsi di un caso fortuito e che certamente, ponendo la medesima domanda, sarebbe emerso un altro responso. Antonio, minimamente turbato per la provocazione, rimase qualche secondo in silenzio, poi disse:
“Non è mai un bene provocare e sfidare gli oracoli, che dovrebbero ricevere da noi soltanto gratitudine per l’aiuto che possiamo trarne. Tuttavia, questa sera consentirò un’eccezione.”
Chiese alla persona che aveva appena ricevuto il responso di ripetere cortesemente la domanda e di effettuare nuovamente l’estrazione delle monete per la consultazione dell’I King. La tensione e l’attenzione di tutti i presenti era palpabile nell’aria. Emersero i due medesimi esagrammi estratti poco prima; in altre parole, la stessa identica risposta.
A quel punto l’incredulità della signora iniziò visibilmente a vacillare, ma Antonio si spinse ancora oltre e chiese anche a lei di effettuare un tiraggio ponendo la stessa identica domanda posta precedentemente dal richiedente. Questa volta emerse un responso differente tramite l’esagramma numero 4: La Stoltezza Giovanile. Ne riporto solo un piccolo ma significativo estratto, che non necessita di ulteriori commenti:
“Consultato una prima volta io dò responso. Ripetere più volte le divinazioni è importunare. A chi importuna non dò responso. L’irriverenza mostra la stoltezza giovanile. La stoltezza giovanile può essere corretta con l’educazione.”
È facile immaginare quanto rimase sbigottita quella signora. Un’esperienza del genere condurrebbe chiunque a rimettere perlomeno in discussione le proprie certezze e la propria presunzione. Dal canto suo Antonio rimase invece imperturbato, senza dare segni di quel genere di soddisfazione gloriosa che avrebbe pervaso chiunque altro. La sua non era stata una scommessa coraggiosa con la sorte, quanto piuttosto il frutto di una certezza interiore che può provenire esclusivamente dal contatto diretto con un’intelligenza superiore, invisibile ma presente.
Mi sono chiesto più volte cosa sarebbe successo se al suo posto ci fosse stato un altro officiante, dato che sono propenso a pensare che la sua stessa presenza influiva su questo genere di eventi in modo imperscrutabile come un legame indissolubile tra oracolo-oracolante.
Antonio accettava con estrema delicatezza e compassione l’ignoranza che si confessava come tale, mentre al contrario diveniva un feroce distruttore della superbia che si elogiava a forma di conoscenza. Quando sentiva odore di presunzione si serviva della sua inesauribile scienza per spostare i punti fissi e oscurare le certezze di chi aveva di fronte come se incarnasse l’ignoto, il mistero della vita da inseguire. In quelle occasioni conduceva la persona a riconoscersi come un granello di polvere infinitesimamente piccolo di fronte all’immensità dell’Universo.
Non permetteva a nessuno di realizzare i propri desideri personali utilizzando gli strumenti offerti dal suo insegnamento, ma con pazienza invitava a partecipare a un progetto di vita estremamente più grande, in grado di trascendere la piccola e misera individualità per divenire protagonisti attivi nel processo evolutivo universale. Per questo motivo attirava l’attenzione sugli errori e sulle lacune ma soprattutto sul modo di porvi rimedio, onde evitare che tali errori conducessero a soffrire in seguito per le conseguenze.
Lasciava sempre liberi di agire come si voleva, ma non fingeva di approvare qualsiasi cosa, anzi, la sua schiettezza senza compromessi era la chiave per indagare le cause dei malesseri più profondi. Non esiste compito più arduo e ingrato di questo, poiché le persone tendono a valutare e misurare se stesse con i propri pensieri e non con le proprie azioni, e quando sono chiamate ad invertire la prospettiva si ribellano.
Il metodo di Antonio era infatti preciso e sofisticato, specialmente nella sua applicazione pratica, perché non consentiva alle persone di giungere ad una conoscenza di sé ipotetica o concettuale, ma di toccarla con mano. In un processo del genere non vi è nulla di più fuorviante dei propri pensieri, delle proprie convinzioni e della fiducia indiscussa verso la propria capacità di giudizio. Tale è il motivo per cui è pericoloso considerarsi affidabili maestri di se stessi, escludendo la possibilità che una o più persone di cui ci si fida dal di fuori possano stimolarci e consigliarci con lungimiranza e schiettezza.
Dato che è pressoché impossibile procedere velocemente nella Via senza l’aiuto di qualcuno con una comprovata esperienza, la tradizione afferma che il discepolo ha il diritto di mettere alla prova in tutti i modi che reputa più opportuni colui che vorrebbe seguire come maestro; ma una volta donato il proprio consenso, dovrà accettare di essere messo lui stesso continuamente alla prova da colui che ha scelto, che porterà fino allo sfinimento ogni traccia di orgoglio, superbia ed egoismo presenti nell’allievo.
Con la scusa che si incontrano spesso dei falsi guru che si nascondono dietro parvenze spirituali solo per trarre vantaggio economico o di altro tipo, molte persone si rassegnano comodamente sulla convinzione che i veri maestri siano solo un’utopia. Ma non è forse prova di grande ottusità credere a priori che non possa esistere ciò che non appartiene al proprio campo di esperienza?
Si potrebbe tuttavia obiettare che è difficile riconoscere un vero maestro fra tanti incantatori. Potrebbe invece non essere così difficile, a condizione di sapere però quello che si sta cercando e cosa ci si aspetta da lui. Coloro che non sanno in realtà quello che cercano, o che nascondono i propri interessi personali dietro obiettivi spirituali, ingannano se stessi e sono destinati ad imbattersi in continue delusioni.
Un vero maestro non è qualcuno che gira con la bacchetta magica in tasca pronto a risolvere i problemi di tutti e con la voglia di elargire l’illuminazione con la sola imposizione delle mani. No, potrà offrire alcuni metodi, ma sarà il suo discepolo a dover fare il lavoro con coraggio e perseveranza. Cercare le facili scorciatoie è un buon modo per fare dei bei sogni, ma anche per continuare a dormire.
La Via necessita di una disciplina di vita che richiede molto tempo e molti sforzi; inoltre il processo di conoscenza di sé non è mai piacevole o divertente. La Via non è fatta per chi si accontenta di prendere alla leggera certe conoscenze, o per chi si illude di poterne estrapolare solo alcune parti per proprio uso e consumo.
Quindi, se qualcuno promette facilmente e rapidamente la chiaroveggenza, i poteri magici, il contatto con il Sé superiore, eccetera, occorre perlomeno diffidare. Ed occorre diffidare ancora di più se questi risultati straordinari vengono assicurati in cambio di denaro o di prestazioni di altro tipo. Nessun vero maestro chiederà mai un solo soldo o favori in cambio del suo aiuto, ma pretenderà implacabilmente che ci si dedichi al suo insegnamento con tutte le proprie forze, il proprio cuore e la propria mente.
Il maestro rappresenta – e di fatto incarna – la coscienza dei suoi allievi, quella parte di loro stessi che non sono abituati a riconoscere e prendere in considerazione. Ecco perché a volte è sufficiente evocare anche solo nell’immaginazione la presenza del proprio maestro (o di un maestro verso il quale si avverte una certa affinità) per sentirsi approvati, incoraggiati, rimproverati, oppure stimolati verso scelte di vita forse irrazionali ma giuste.
Coloro che immaginano che la propria evoluzione spirituale sarebbe facilitata se avessero un istruttore saggio e potente in carne e ossa, si sbagliano. Nessuno impedisce infatti di rivolgersi a quei maestri che da tempo hanno lasciato questa terra, anzi, è questa una pratica consigliata da molte tradizioni.
Il costante e perseverante sforzo di accordare i propri pensieri e i propri sentimenti a un grande essere del passato, crea una sottile e profonda connessione. Il fattore fondamentale che soggiace a questa connessione, risiede nel fatto che il maestro non sia che un mezzo, un mezzo estremamente potente e sacro.
Anche incontrando di persona un maestro vivente sarà richiesto di restare sempre vigili. Il rispetto, l’ammirazione e la venerazione devono servire innanzitutto da stimolo per il proprio rinnovamento interiore, altrimenti non porteranno da nessuna parte. Non sono rari i discepoli che credono nel proprio maestro come un religioso crede in Dio, immaginando e sperando che la loro fede li salverà e che un giorno potranno accedere alle porte di un fantomatico paradiso per diritto acquisito; ma questo è un approccio infantile e fuorviante.
La consapevolezza è sempre il risultato di un lunghissimo processo, che consiste nel cambiare il proprio modo di vivere per renderlo coerente con l’orientamento di vita che si vuole perseguire. In questo lavoro il maestro potrà solo stimolare con il suo esempio e sostenere con i suoi consigli, ma non si sostituirà mai al suo allievo.
Antonio non offriva risposte preconfezionate ai grandi quesiti dell’esistenza e non aveva interesse ad offrire significati standardizzati. Se le persone gli chiedevano perché i bambini muoiono di fame in Africa e perché c’è tanta sofferenza nel mondo, lui consigliava di non andare troppo lontano per capire la vita ma di iniziare dalle proprie esperienze personali.
Se non possiamo capire il motivo per cui accadono certe cose ad una persona che non conosciamo dall’altra parte del pianeta, possiamo certamente arrivare a comprendere gradatamente i motivi per cui la vita propone a noi determinate situazioni. Non si può giungere alla verità universale senza realizzare prima la propria verità personale.
Alla spiritualità autentica non interessano le domande sull’esistenza di Dio, sui suoi attributi e sulle sue intenzioni, quanto piuttosto mettere l’aspirante nelle condizioni di poter toccare con mano le risposte. Antonio non poneva mai limiti alle possibilità di esplorare i misteri dell’Universo, ma non faceva saltare le tappe fondamentali e non distribuiva illusioni in cui potersi trastullare.
A tutto ciò va anche aggiunto che un vero maestro non spronerà mai verso un isolamento meditativo (perlomeno non in questa nostra epoca), ma incentiverà al contrario a legare fraternamente con altre persone in virtù di una medesima aspirazione di libertà interiore. La tendenza degli esseri umani è infatti quella di sottrarsi alla vita collettiva tesa al lavoro interiore, e preferiscono rimanere rintanati nella loro vita personale e individuale, rimanendo così al sicuro dentro le proprie idee e al riparo da tutto ciò che potrebbe disconfermarle.
Nell’isolamento interiore ci si espone invece a tutti i pericoli più insidiosi e ci si sottrae ai preziosi contrasti che nascono dal confronto con i propri simili, in grado di far emergere con più velocità e chiarezza proprio quei lati oscuri più nascosti e insidiosi.
Antonio adoperava i conflitti che si creavano tra le persone come la più autentica materia grezza da lavorare alchemicamente. Descrivere il modo in cui riusciva a svolgere questo lavoro sarebbe come descrivere i singoli movimenti di un direttore d’orchestra all’opera: gli stessi non direbbero nulla sulla sua arte, e chiunque provasse a ripeterli senza incarnare il giusto spirito, darebbe probabilmente vita a un minestrone di suoni disarmonici.
Alcuni maestri seguivano o seguono forse uno stile di insegnamento specifico e in linea con la loro tradizione di riferimento, ma in Antonio era impossibile individuare un sistema riconoscibile. Come lui stesso disse, apparteneva a un lignaggio antico quanto indefinibile.
La figura tradizionale di maestro viene comunemente associata all’ultimo rappresentante di una catena di maestri facente riferimento ad una specifica corrente spirituale, ripercorribile a livello storico nel susseguirsi dei suoi rappresentanti.
Ma esistono anche maestri erranti, che appaiono nei luoghi e nelle epoche più disparate e che mantengono un rigoroso riserbo (per molteplici ragioni che meriterebbero un libro a parte) sulla loro discendenza spirituale, rendendo per tale ragione difficile, se non impossibile, attribuire loro una specifica tradizione. Antonio faceva parte di quest’ultima categoria.
Nelle vie tradizionali il discepolo abbandonava tutto o quasi tutto, e faceva corpo unico con la famiglia del maestro. Tra il maestro e il discepolo si formava così un legame che è superiore al legame famigliare. Il maestro considera infatti il suo discepolo molto di più di un figlio carnale, perché a quest’ultimo potrà dare una certa direzione nella vita, mentre al discepolo donerà la Via, l’essenza dell’insegnamento.
Oggi ci sono delle condizioni sociali e culturali, specialmente in Occidente, per cui tale approccio non è più realizzabile così facilmente come in passato. Questo è il motivo per cui assumono una funzione preziosissima i maestri erranti, i quali si “sporcano le mani” per offrire l’addestramento adeguandolo alle possibilità del momento.
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