L’invidioso: figlio di un dio minore

Non procura vantaggi, tuttavia in suo nome si è disposti a rovinare, vanificare, distruggere ogni cosa: è l’invidia, un vizio capitale che non obbedisce alle leggi della logica, nè dell’edonismo, nè del profitto. Il mondo dell’invidioso è totalmente privo di ogni piacere, conosce solo rabbia e malanimo.

La Bibbia mostra come l’invidia nasca e si sviluppi all’interno dei rapporti familiari e di quelli più intimi, non risparmiando proprio nessuno. Il libro della Genesi associa ad esempio la fratellanza all’invidia, come ben ci ricordano Caino e Abele (Gn 4), Giacobbe ed Esaù (Gn 27, 1-46) e i fratelli di Giuseppe (Gn 37-50). Da questi rapporti, come nelle storie di molti di noi, sembrerebbe che l’invidia diventi più stritolante proprio tra le persone che più sono, o sono state, vicine.

Se per la psicanalisi la distruttività dell’invidioso riflette la possessività primigenia verso la madre, per Dante si tratta di una sorta di cecità che impedisce di riconoscere il bene.

San Cipriano e san Gregorio Magno hanno anche identificato la fisionomia tipica del povero invidioso, un aspetto affatto gradevole: volto minaccioso, grigiastro, aspetto torvo, denti che stridono, guance cadenti, fauci secche. Nei casi più disperati mani pronte a colpire o parole insensate ricche di un veleno denso e amaro.

Prima o dopo l’invidioso troverà il modo di odiare ed indirizzare il suo astio esistenziale verso qualcuno. Facilmente diventa un vero e proprio “cacciatore di errori altrui”, perché la convinzione che le sue distorsioni siano reali, offre un pallido sollievo al nefasto sentimento che lo accompagna.

L’invidia cresce sottraendo, si diffonde nell’animo e impedisce di vedere e di compiere il bene.

Si riconosce dallo sguardo truce e cattivo, malvagio e cieco. Uno sguardo che non permette di ascoltare, di sentire e constatare il bello ed il reale, ma solo l’astio verso la fonte delle sue ambasce.

L’invidioso si sente “il figlio di un dio minore”. Egli avverte che la sua condizione è radicalmente ingiusta, perchè altri hanno vantaggi e compiono azioni che a lui sono stati negati, e questo eccita il suo desiderio di vendicarsi. L’invidioso non desidera infatti ciò che è degli altri: egli vuole distruggere ciò di cui gli altri godono e lui no, una sorta di perversione per cui il bene non suscita gioia ma tristezza. La scomparsa del bene rappresenta per l’invidioso l’unico breve e fugace momento di pace.

Ciò che gli altri fanno, dicono, scrivono o possiedono non va bene: è ingiusto, spregevole e disgustoso.

L’invidioso così firma la sua condanna, destinato a farlo diventare nel tempo sempre più cattivo, acido e infelice. La pena dell’invidia è proprio questa sorta di autocombustione, una specie di moto perpetuo di malvagità e di dolore che non dà scampo, in quanto accompagna il portatore come la propria ombra. L’invidioso non si accorge infatti che le frecce che scaglia contro gli altri torneranno indietro, straziandolo ulteriormente.

Quali rimedi per ritrovare la bellezza delle relazioni e della vita?

Innanzi tutto riconoscere la propria invidia con umiltà, ammettendo che non c’è nessun guadagno nell’essere sprezzanti e stolti. I propri presupposti di base devono essere messi in discussione, altrimenti l’invidia non potrà mai essere riconosciuta e gestita. Cosa riconoscere? Il proprio disprezzo, i pensieri ossessivi, le paranoie, il rimuginio perpetuo e la propria, profonda, ingiustizia. Un’ottima partenza quindi, ma da integrare con altri punti di attenzione.

Altro passo è la sobrietà, che permette all’invidioso di non perdere tempo, energie e risorse per ciò che non lo riguarda e per ciò che in fondo non desidera nemmeno. La sobrietà permette di ritornare alla verità dell’essere e di estirpare radici infestanti di malumore e acidità.

La gratitudine e il ringraziamento sono altri due potenti rimedi. La spiritualità è di sicuro aiuto in questo, in quanto nella relazione con ciò che si ritiene essere Superiore si è invitati a riconoscere che i beni essenziali che garantiscono la vita vengono assicurati gratuitamente, e che la stima di se stessi non va cercata nell’approvazione altrui ma nella fiducia che qualcosa di più alto e sottile ha riposto in noi.

Ma il vero, più potente antidoto per l’invidia, consiste nel porgere le proprie scuse.

L’invidioso danneggia con pensieri, parole ed azioni. Dopo averle ammesse a se stesso deve farlo con chi ha ingiustamente vituperato o indirizzato le più nefaste energie. E dopo averlo fatto, deve cercare di riequilibrare le situazioni in base a quelle che sono state le sue malefatte.

L’invidia se ne andrà, e lascerà in cambio una profonda ed intima gioia curando le ferite del cuore con il colore della vita.

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Bibliografia:

G. Cucci, L’Invidioso, AdP, Roma, 2013.

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