Cha No Yu, meglio conosciuta come Cerimonia del Tè, è considerata una vera e propria arte fondata sulla mescolanza del tè, reso in polvere, mescolato all’acqua calda, densa di un ricco simbolismo e significati culturali.
Una delle più grandi differenze tra il nostro pensiero e quello della Cina antica, è che mentre la nostra lingua può essere usata per descrivere a profusione qualcosa di astratto, remoto e intangibile, quella cinese è invece fondamentalmente strumentale e non si preoccupa di scoprire verità teoretiche estrapolate dalla realtà.
La Regla de Ocha, o Santeria, è la religione di origine africana più diffusa a Cuba, un luogo dove la spiritualità è molto sentita e vissuta in tanti modi diversi tra i suoi abitanti. Nell’isola sono praticate molte religioni, spesso mischiate tra loro senza alcun tipo di problema, in un clima generale di tolleranza e contaminazioni. Le pratiche magiche ed esoteriche, i culti devozionali e le iniziazioni segrete, le religioni monoteiste e quelle animiche, convivono e si sovrappongono nelle famiglie e nei luoghi di culto cubani.
La Regla De Ocha è un insieme articolato e affascinante che è difficile, quanto inutile, inquadrare in modo schematico. Si può invece provare a seguire le tracce della sua storia e dei suoi significati, per iniziare ad avvicinarsi a qualcosa che si può provare a conoscere ma, con ogni evidenza, ha soprattutto un grande valore esperienziale. La pratica è certamente fondamentale per conseguire il fine del culto, che è la felicità del praticante.
La Santeria, o come preferiscono chiamarla i santeri cubani Regla de Ocha, è un culto, una filosofia, un riferimento di vita e un sistema di pratiche magiche e oracolari introdotto dagli africani a Cuba nei secoli della tratta degli schiavi. La Santeria si fonda sulla mescolanza, o sincretismo, tra le divinità del popolo Yoruba di origine nigeriana e i santi del cattolicesimo.
Dovremmo cominciare a rivedere sotto una nuova luce il detto: “Sei come San Tommaso”, e ritenerlo come un pregio, non come un difetto. Da secoli, e fino ai giorni nostri, è stato usato dai benpensanti per sminuire chiunque provi a mettere in dubbio la loro sacra verità, per chiunque cerchi di approfondire gli argomenti ponendosi domande, studiando sui libri, non accontentandosi delle apparenze e del nozionismo superficiale, ma cercando di costruire un proprio punto di vista il più possibile scevro da ogni condizionamento. È a queste persone, i cercatori, che suggeriamo di leggere il Vangelo di Tommaso.
Da sempre l’essere umano osserva la natura e ne individua elementi in grado di rappresentare simbolicamente dei significati profondi. In particolare, è attratto e affascinato dagli animali, tanto da renderli protagonisti di miti, leggende, romanzi. Ma uno in particolare, un maestoso volatile, considerato la regina del cielo, è stato da sempre ammirato e venerato in diverse culture per le sue particolari caratteristiche: si tratta dell’aquila.
Libera di librarsi in volo a quote particolarmente alte nel cielo, l’aquila si contrappone al leone, re degli animali sulla terra. Ha qualità incomparabili: ascende e discende molto velocemente, ha artigli robusti che le permettono di afferrare le prede con una presa potentissima. Ha una capacità visiva molto acuta e non teme la luce del Sole.
Nei racconti mitologici troviamo spesso animali fantastici, che esistono sul piano simbolico, ma non nella realtà, cui vengono attribuiti poteri particolari. Non è questo il caso del Basilisco, creatura reale, che vanta un nome mitologico e altrettanti poteri simbolici come gli animali fantastici.
La figura del Drago, animale mitico-leggendario, si incontra nell’immaginario collettivo di tutti i popoli. È presente in età classica nel mondo occidentale come creatura malefica, portatrice di morte e distruzione, così come in quello orientale, dove diventa simbolo di saggezza, di potere, di forza vitale e di fertilità. Fiorisce nella cultura allegorica medievale, facilmente rintracciabile sia in campo religioso che in campo araldico.
La sua immagine deriva dalla fusione di plurimi tratti somatici differenti prelevati, di volta in volta, da animali aggressivi (coccodrillo, serpente, leone, dinosauro, ecc.), in sintesi è la figura della bestia avversaria dell’uomo.
Nell’antichità la figura di chi combatte il mostro è tipicamente l’Eroe (Apollo, Perseo, Ercole), mentre nel mondo cristiano medievale la figura del combattente è quella del Cavaliere o del Santo (San Giorgio, l’Arcangelo Michele).
Da più di un anno l’intera umanità si trova ad affrontare un nuovo virus che ha creato un enorme allarme. Ogni essere umano, individualmente e in gruppo, nell’ambito della propria cultura di riferimento, si trova immerso in un flusso d’informazioni dove la morte è menzionata quotidianamente. Non è più un argomento di cui si parla poco come prima, quasi che non esistesse. Il virus è riuscito a scuoterci dal torpore in cui ci lasciamo a volte vivere, desolatamente inconsapevoli che il tempo a disposizione non è infinito.
Non procura vantaggi, tuttavia in suo nome si è disposti a rovinare, vanificare, distruggere ogni cosa: è l’invidia, un vizio capitale che non obbedisce alle leggi della logica, nè dell’edonismo, nè del profitto. Il mondo dell’invidioso è totalmente privo di ogni piacere, conosce solo rabbia e malanimo.
La Bibbia mostra come l’invidia nasca e si sviluppi all’interno dei rapporti familiari e di quelli più intimi, non risparmiando proprio nessuno. Il libro della Genesi associa ad esempio la fratellanza all’invidia, come ben ci ricordano Caino e Abele (Gn 4), Giacobbe ed Esaù (Gn 27, 1-46) e i fratelli di Giuseppe (Gn 37-50). Da questi rapporti, come nelle storie di molti di noi, sembrerebbe che l’invidia diventi più stritolante proprio tra le persone che più sono, o sono state, vicine.
Se per la psicanalisi la distruttività dell’invidioso riflette la possessività primigenia verso la madre, per Dante si tratta di una sorta di cecità che impedisce di riconoscere il bene.
San Cipriano e san Gregorio Magno hanno anche identificato la fisionomia tipica del povero invidioso, un aspetto affatto gradevole: volto minaccioso, grigiastro, aspetto torvo, denti che stridono, guance cadenti, fauci secche. Nei casi più disperati mani pronte a colpire o parole insensate ricche di un veleno denso e amaro.
Con questi versi Dante descrive la Fenice, uno dei simboli più affascinanti della mitologia egizia: gli egizi identificavano questo maestoso airone con Bennu (dal verbo benu, splendere, brillare, puntare al cielo, librarsi in volo).
A chi non è mai capitato di soffermarsi ad ammirare uno stemma posto sul portone di un palazzo antico, cercando di comprendere il significato intrinseco di animali o piante o altre raffigurazioni rappresentate nello stesso? O ancora, perché è stato adoperato un colore piuttosto che un altro? Una risposta chiara ce la fornisce una vera e propria scienza ausiliaria della storia che è l’Araldica, uno studio complesso approfondito degli stemmi, nata non per magnificare nobiltà e privilegio, ma per reale necessità di riconoscimento. L’Araldica può essere considerata infatti un vero e proprio codice sociale comunicativo, mediato da segni, posizioni in scudo e colori. Continua a leggere “Il misterioso mondo dell’Araldica”
Quando un essere umano intraprende la via del guerriero diventa gradatamente consapevole di essersi lasciato per sempre alle spalle la vita ordinaria. Ciò significa che la realtà ordinaria non può più proteggerlo e che per sopravvivere dovrà adottare un nuovo modo di vita. (1)
Attraverso le parole del suo benefattore Don Juan Matus, Carlos Castaneda introduce un concetto fondamentale per coloro che desiderano intraprendere il percorso interiore verso la conoscenza e la libertà: la Via del Guerriero secondo la Tradizione Tolteca. Continua a leggere “Le 4 strategie dell’Agguato di Don Juan”
Stiamo assistendo un periodo di riscoperta del mondo celtico e dei popoli nordici più in generale; popoli che adottavano sistemi di vita e tradizioni differenti da quelli odierni basati sulla cultura romano-cattolica. Un affascinante universo deliberatamente oscurato, conteso con vigore prima dalla spada degli antichi romani e poi dal fuoco dell’Inquisizione, sepolto per secoli sotto l’etichetta di ‘barbaro’. Oggi, questo mondo sta emergendo con forza.
Le motivazioni non sono chiare, forse è il bisogno di risposte alle domande esistenziali alle quali l’odierna società non riesce a rispondere. Viviamo in effetti sulle fondamenta della civiltà romana, dove la competizione, la conquista, il profitto, la lotta per emergere, erano i pilastri fondanti.
Nel passare dei secoli, questi pilastri, si sono rinforzati diventando sempre più sofisticati, parte integrante della nostra vita, al punto tale da pensare che non esista altro stile di vita possibile al di fuori di quello basato sui valori che ci sono stati trasmessi dalla cultura.
L’odierna società non riesce a rispondere alle domande basilari sull’esistenza. Abbiamo tutto dal punto di vista materiale, eppure viviamo sempre come se ci mancasse qualcosa, inseguendo la felicità nella corsa sfrenata alla ricchezza e al successo, cosa che puntualmente non riusciamo ad afferrare anche quando raggiungiamo questi obiettivi.
Ed è appunto su questa via del decadimento del nostro sistema sociale che il mondo celtico torna a parlarci.
I Celti vivevano a stretto contatto con la natura, basando la loro spiritualità su di essa; per templi usavano i boschi, le sorgenti, le cascate, luoghi incantati che venivano custoditi e mantenuti sacri dai loro sacerdoti.
È assodato che alcune immagini e alcuni simboli appartenenti e provenienti da svariate Tradizioni, siano entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Dal punto di vista occidentale tale sorte è senz’altro toccata alle dieci piaghe d’Egitto contenute nel Libro dell’Esodo (dalla Bibbia).
I suoi simboli sono stati mediati soprattutto dai mass media, ed in quella forma si sono fatti strada e si sono fissati in maniera più o meno stabile nella coscienza di ognuno. Nel migliore dei casi essi sono stati interpretati dalla lettura, talvolta superficiale e poco approfondita, che di essi generalmente se ne dà in un contesto religioso.
Tale sorte è stata forse risparmiata solo a chi respira Tradizioni ancora vive, che approfondiscono il senso delle Scritture andando oltre il banale senso letterale. È questo il caso della più profonda corrente Ebraica.
Per tale Tradizione infatti, lo studio e l’approfondimento delle Scritture rappresentano due capisaldi irrinunciabili della pratica quotidiana. Nello specifico, esistono fondamentalmente quattro livelli di lettura e approfondimento del Testo Sacro: il primo livello è quello letterale (peshat), il secondo livello è quello allegorico (remez) a cui fa seguito la modalità analogico (derash). L’ultimo livello interpretativo è quello mistico (sod).
Nel poema più famoso del mistico persiano sufi Farid al-Din ‘Attar – Il Verbo degli Uccelli – si delinea un’impareggiabile metafora del Cammino che si prospetta di fronte a colui che decide di mettersi alla ricerca di se stesso.
Lungi dall’idea di poterne fare una sintesi esaustiva, illustreremo brevemente qui di seguito i punti chiave del poema, evidenziandone la simbologia sottesa.
Il poema si apre quando tutti gli uccelli del mondo decidono di radunarsi in una grande assemblea, ormai consci della necessità di trovare un re, per poter dare un senso e portare armonia nelle loro vite:
Dobbiamo unirci in fraterno sodalizio e partire alla ricerca di un re, essendo ormai chiaro che l’ordine e l’armonia non regnano tra sudditi privi di un sovrano.
L’Upupa (simbolo del Maestro, messaggero della realtà divina), l’uccello più saggio tra tutti, li convince ad intraprendere un difficile viaggio alla ricerca di un leggendario uccello (simbolo dell’Assoluto) che vive sull’albero dell’immortalità, l’unico in grado di rivestire a pieno diritto il titolo di re: Continua a leggere “Il Verbo degli Uccelli”
Preferiamo non fare nomi (ognuno valuterà personalmente), ma molti personaggi contemporanei o della storia più recente, si spacciano come maestri appartenenti alla tradizione spirituale Advaita. Più specificatamente, sono considerati come i rappresentanti di quella che viene chiamata Neo-Advaita.
Letteralmente, la parola sanscrita Advaita significata “non ci sono due cose”, riferendosi alla non dualità della realtà, ad un’unica verità, che è sempre stata e sempre sarà. Per tale motivo risulta già di per se stesso un po’ ambiguo parlare di Neo-Advaita, come a distinguere una vecchia verità da una nuova verità…
Ad ogni modo, è comprensibile il fatto che sia emersa la necessità di dare una nuova definizione, dal momento che tali neo-maestri presentano la loro corrente spirituale in una forma a volte difficilmente riconducibile – per chi la conosce bene – alla tradizione originaria.
Viviamo in un’epoca così ricca di tecnologia e d’informazioni immediatamente disponibili, che ci pare di avere accesso a ogni risposta, specie se si tratta di argomenti scientifici.
Siamo cresciuti nelle certezze del “progresso” e ci siamo abbeverati ai mirabolanti programmi televisivi del Mondo di Quark di Piero Angela, col sottofondo musicale rassicurante dell’Aria sulla IV corda di Bach.
Siamo stati educati fin da piccoli a pensare alle leggi della fisica come a qualcosa di scontato, meccanico, privo d’intelligenza. Qualcosa che non ha significato o ragioni da investigare e capire: esiste e basta, quindi va bene così e non c’è altro da cercare, sono solo informazioni più o meno complesse da studiare a memoria senza porsi troppe domande… ma è proprio tutto così semplice e scontato? A un sincero e attento cercatore non può sfuggire il vuoto di risposte e di significati.
Ad esempio, la forza di gravità che ci tiene attaccati al suolo, che fa cadere gli oggetti, che regola le orbite delle stelle e dei pianeti, ecc., indubbiamente esiste e ne facciamo ogni giorno esperienza, ma possiamo realmente dire di conoscerla? Sappiamo come un corpo ne attrae un altro attraverso la sua massa? E perché esiste questo fenomeno? C’è una volontà e quindi un’intelligenza che la alimenta?
In realtà la forza di gravità rimane ancora un vero enigma per la scienza moderna, ma ciononostante si arroga il diritto di affermare che, tutto sommato, non ha significato cercare altri significati: esiste e basta e ci si deve accontentare di misurarla.
La storia d’amore tra Buddha, sua moglie e il figlio Rahula, è forse la più bella storia d’amore mai raccontata. Perché è la storia d’amore tra un uomo e una donna che trascende i confini del tempo e dello spazio.
È la storia d’amore di tutte le coppie del mondo, in realtà con la differenza che la maggior parte delle coppie vive questa storia in modo inconsapevole, mentre alcune coppie (poche) lo vivono in modo consapevole. È una storia d’amore che contiene molti messaggi, e molte direttive per vivere una vita di coppia soddisfacente. E indica alla coppia la strada da perseguire per essere felici.
Un giorno Siddharta Gautama, principe degli Shakya, capisce che la sua vita manca di qualcosa. Ha una splendida moglie e un figlio. È ricco, ammirato e invidiato. Ma gli manca qualcosa. Sente che deve trovare il significato dell’esistenza e che una vita condotta senza scopi non merita di essere vissuta. E vuole cercare il segreto della felicità, ovverosia una formula, per rendere felice l’essere umano a prescindere dalle circostanze esterne.
Prende quindi una decisione che per la maggior parte della gente sarebbe folle: se ne va di casa. Se ne va di notte, perché non reggerebbe al dolore della famiglia, e perché forse ha paura di essere trattenuto dal figlio.
La parola tradimento evoca nelle nostre menti un significato negativo e un senso di disagio. Chi perpetra il tradimento è, nel nostro immaginario culturale, il peggiore essere umano con cui si possa avere a che fare, così come l’essere traditi una delle più terribili condizioni.
Ma esiste anche un altro significato di tradimento, estremamente più profondo e interessante, che lo pone come vera necessità dell’Anima.
Il rabbino Nilton Bonder, nel suo libro l’Anima Immorale, ci aiuta ad osservare l’infedeltà da questa prospettiva in contro-corrente morale, attraverso la voce della millenaria Tradizione Ebraica.
Per l’autore, infatti,
l’anima produce un desiderio complesso: rendersi immortale attraverso la trasformazione.
Nella nostra epoca così evoluta, ricca di tecnologia, d’innovazione e di progresso, sembriamo aver perso un senso molto caro ad alcune tradizioni passate: il senso della vergogna.
Ci vergogniamo solo di avere i capelli fuori posto, la giacca fuori moda o la macchina sporca, ma in quanto al mentire, al tradire, al promettere e non mantenere, all’approfittarsi della generosità altrui senza riconoscenza, ben poco ci importa.
Quel che conta è soddisfare i propri interessi, sopravvivere giorno dopo giorno senza badare ad altro. Costruiamo rapporti solo per utilità personale, per poi sparire alla prima difficoltà. Ci muoviamo sul palcoscenico della vita con meticolosa ed ossessiva attenzione verso i passi falsi degli altri, ma ci copriamo gli occhi davanti ai nostri.
Se qualcuno cercasse di vivere secondo regole di altri tempi, in controcorrente con la tendenza attuale, potrebbe forse essere considerato folle, troppo “rigido” o utopista, ma un tempo non era così.
Vi era un’epoca in cui la parola data, la dignità e la verità erano considerati i principi vitali più importanti, e si poteva anche morire per difenderli. Era l’epoca dei cavalieri, così come viene magistralmente evocata da Gaspare Cannizzo nel libro Cavalleria e Cavalieri. Continua a leggere “Nostalgia dei cavalieri”
“In verità in verità vi dico, se il chicco di grano essendo caduto in terra non muore, esso rimane solo; ma se muore, porta molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.” (Gv 12,24).
La cultura odierna ci chiede di essere buone pecorelle, dedite al pascolo; ci procura della buona erbetta tutti i giorni, importante solo non alzare la testa e continuare a brucare, mangiare più velocemente possibile, altrimenti si corre il rischio che arrivi qualcuno a portarci via la nostra razione quotidiana.
Il messaggio per tutte le pecore è chiaro: Felicità, un prato verde da brucare. In altre parole, lottare per attirare le attenzioni e le ammirazioni altrui, cercando di essere sempre più belli, più ricchi, più intelligenti degli altri; cercare di conquistare ogni giorno una porzione di mondo in più, per sentirci più potenti e al sicuro.
Poi leggiamo il passo del Vangelo di Giovanni, e ci chiediamo: cosa voleva dirci?
Proviamo per un attimo, nella parabola presa in riferimento, ad associare l’uomo al chicco di grano. Questo chicco si adatta al piano di vita in cui nasce ma, nonostante sia circondato da altri migliaia di chicchi, si sente solo, e questa solitudine è forse data dalla lontananza da un piano divino differente, la casa del Padre. Continua a leggere “Felicità: un prato verde da brucare”
Inutile negare che la nostra cultura religiosa è particolarmente egocentrica e ignorante. Due aspetti in contrasto proprio con il messaggio cristiano, ma soprattutto apparentemente in contrasto tra loro. Si sarebbe infatti portati a pensare che sia una certa dose di conoscenza a gonfiare di orgoglio e superbia, eppure le cose non stanno esattamente così.
Se ci fermiamo solo un attimo ad ascoltare ciò che Madre Coscienza-Cultura ci sussurra, il messaggio è chiaro: la nostra religione è la migliore, storicamente inattaccabile e teologicamente più avanzata.
Questo dato di fatto interiore è talmente scontato che non ci preoccupiamo di nulla, e non stiamo parlando di effettuare ricerche approfondite sui testi dei Padri della Chiesa: la maggior parte di chi si reputa cristiano con forza e convinzione non ha mai letto neanche una volta il Vangelo, per non parlare della Bibbia…
Ecco allora che appare sulla scena un certo Mauro Biglino il quale, con onestà intellettuale, coerenza metodologica e soprattutto dopo decenni di studi accurati, afferma che le traduzioni della Bibbia propinate da secoli sono fuorvianti e strumentalizzate. Davanti alla sua dichiarazione che “la Bibbia non parla di Dio” si ergono cori di indignati e irritati, feriti nell’amor proprio di una religione nella quale si identificano senza nemmeno conoscerla.
È anche curioso osservare quale drammatico shock provoca un’altra delle sue affermazioni secondo cui “non esistono prove storiche dell’esistenza di Cristo, quindi potrebbe trattarsi di un mito” , davanti alla quale lo sdegno è forse la reazione più blanda. Destabilizzando la storia, si destabilizza anche la fede. È tutta una questione di storitualità. Occorre allora porsi alcune domande.
Ad esempio: per quale motivo se diciamo a un cristiano che Cristo non è mai esistito, gli provochiamo un trauma spirituale, mentre se diciamo a un induista che Krishna non è mai esistito, lui sorride quasi compiaciuto e saldo nella sua fede? Continua a leggere “La fragilità del Cristianesimo”